Ritorna Justin Vernon, conosciuto ai più come Bon Iver, in collaborazione con i Collections Of Colonies Of Bees, a dar vita al suo discusso side project Volcano Choir. Dimentichiamoci però, in questo secondo lavoro, di tutte quelle variabili sperimentali che avevano caratterizzato, nel bene e nel male, Unmap (Jagjaguwar, 2009). Il vuoto lasciato dai tentativi ipnotici e minimalisti lascia spazio ad un’impostazione più classica e al sound già ampiamente collaudato nel secondo lavoro solista di Vernon (Bon Iver, Bon Iver – Jagjaguwar, 2011).
Questa prima considerazione non deve indurre a credere che ci troviamo di fronte ad un brutto lavoro. In questo disco ritroviamo tutta la delicatezza e l’epicità che possiamo cercare in un Bon Iver in brani indovinati come Alaskans, nel quale campeggiano dolci arpeggi che hanno l’abilità di cullarci verso rilassanti echi di radio in lontananza, o anche nei climax sofferti di Comrades (che si conclude con l’uso di un vocoder per nulla fuori luogo) o nelle doppie e triple voci dell’accorata Acetate.
Dal punto di vista delle liriche Justin Vernon e compagni non si smentiscono e ci consegnano dei testi penetranti, esortativi, colmi di figure retoriche e di richiami evocativi. Tiderays, ad esempio, ci consegna un verso centrale (on the hard nights, you’re the ace right), corredato da una forte assonanza interna che letteralmente spezza la canzone, obbligandola ad un cambio di registro ben organizzato: inizia un’anafora composta da tre “But” in sequenza che ci conducono verso un meraviglioso climax. Anche Byegone impressiona molto, in particolare con la splendida metafora “hold the keys to a Cuban flight that you won’t ever ride” e la successiva conseguente esortazione “It’s time to up and die” che esplode con il coraggioso imperativo categorico di “Set sail! Set sail! Set sail!”
Alcuni sprazzi dei Collections Of Colonies Of Bees che avevano contribuito molto di più nel lavoro precedente, li troviamo negli ultimi due brani: Keel, estremamente ambientale, dai testi bucolici e dai richiami biblici, si ammanta di una sacralità avvolgente e schiacciante, afosa e ossessiva; Almanac, il pezzo senza alcun dubbio più malinconico ed evocativo del disco, che si avvale di un tappeto di ipnotiche pulsioni elettroniche e fa rivivere l’anima dei primi Volcano Choir e prende leggermente le distanze dai sound già conosciuti di Bon Iver. Ma è un’eccezione.
Si tratta di un bel disco promosso con una sufficienza, perché purtroppo somiglia a quello che potrebbe essere un b-side di “Bon Iver, Bon Iver”: i Volcano Choir scelgono di rifugiarsi nella tana della sicurezza e non osano sfidare l’ombra gigantesca del loro stesso vocalist, come invece hanno fatto in passato.
Jagjaguwar, 2013