Qualche giorno fa Minimaetmoralia riprendeva un estratto da una prefazione di Cortázar a cura di Francesco Piccolo, cominciava così: ”Se si ama uno scrittore, come io amo Cortázar, come voi presumibilmente amate Cortázar per aver acquistato questo libro e averlo aperto con il desiderio di cominciarlo, si diventa degli stalker letterari. Lo si segue, insegue, pedina, spia; si rovista nelle carte, si osservano i disegnini e gli appunti. Si ricostruiscono relazioni sentimentali e professionali, si giudica il carattere, si azzarda perfino un’osservazione irriverente sulla qualità o verità del suo amore per qualcuno o qualcuna.” Non so quanto possa essere meno degradante definirsi stalker letterari piuttosto che stalker tout court, eppure nell’approcciarci a scrittori come Franz Kafka non possiamo assolutamente prescindere dalla sua vita, e ci sono casi in cui alcuni particolari del privato riescono a illuminare un’opera intera. Ma non è sempre così: quanti di quelli che hanno amato I Buddenbrook e La morte a Venezia conoscono la vita di Thomas Mann?
Se ci interessiamo alle vite di scrittori come Bolaño e Cortázar, piuttosto che di Borges, è perché in questi due personaggi riusciamo a cogliere un qualche interesse che trascende l’opera stessa dei due autori: forse entriamo in quel sottile confine di quella che chiamiamo ”vita letteraria” (o quella bella baggianata che raccontiamo essere la ”vita letteraria”). La vita di Kafka, d’altro canto, potrebbe apparire banale e scandita da rituali piuttosto monotoni, del resto a parte le lettere al padre e a Milena ci confrontiamo con un uomo che trascorreva la sua routine quotidiana in ufficio: tuttavia lui ha saputo rendere illuminante la banalità del sentirsi un insetto, ed è per questo che ancora oggi ci interroghiamo su Kafka e leggiamo come ”stalker letterari” le sue lettere (in fondo senza la lettera al padre non si possono comprendere certe sfumature de Il processo, o La metamorfosi, non si può capire totalmente il mondo di Franz).
La domanda da un milione di dollari è: quand’è che una vita diventa letteraria, interessante, o più semplicemente utile alla comprensione dell’opera dell’autore; in quali casi possiamo esercitare il diritto di essere stalker della letteratura senza sentirci puntuali assassini, senza appropriarci del mondo privato dello scrittore con cui abbiamo a che fare? In fondo la scrittura non ha altro scopo che sorpassare i secoli per raccontare l’uomo, Omero e Shakespeare sono due ”idee letterarie” che prescindono dalla propria identità, o ancora narratori di vecchi canti orali: se Omero non fosse mai esistito e Shakespeare fosse stato Christopher Marlowe la bellezza delle loro opere non muterebbe una virgola (”ciò che chiamiamo rosa anche con un altro nome conserva sempre il suo profumo”, per citare proprio William). Ci sono casi in cui, dunque, la vita dell’autore è totalmente superflua: sono le parole che contano, e quello che ci succede a leggerle.
Del resto per gran parte della storia dell’umanità, e prima dell’arrivo dei dandy, lo scrittore non poteva essere consapevole che le sue parole sarebbero rimaste impresse per migliaia di anni: non poteva essere consapevole del proprio ruolo. Nell’epoca di Oscar Wilde, e del mantra ‘bisogna fare della propria vita un’opera d’arte’, questa consapevolezza divenne invece lampante: ora lo scrittore si rendeva conto che potenzialmente la sua figura poteva trascendere i secoli e agire di conseguenza, per rendere la propria vita, i propri diari, le proprie lettere, semplicemente più interessanti. Il De Profundis di Wilde è una lunga lettera dal carcere di Oscar per il suo compagno Alfred Douglas, e racconta certosinamente questa storia d’amore, osteggiata dal processo per omosessualità, come fosse una vera e propria opera d’arte da consegnare ai posteri. Wilde lo sapeva che questa lettera sarebbe arrivata nelle librerie, eppure non ci risparmia le sue confidenze private. Nei diari giovanili di Jack Kerouac si ricava la stessa impressione: l’intenzione di regalare qualcosa da leggere ai posteri, le prime sperimentazioni di scrittura, la consapevolezza che non stiamo parlando di confidenze private ma di parole che un giorno verranno lette da qualcuno. Pur non essendo un dandy, anche Kerouac era un vitalista come Wilde, anche per Keroauc il confine tra la vita e l’opera sfuma: del resto in On The Road i nomi dei personaggi sono semplicemente traslati da quelli reali. Si può parlare allora di una letteratura che prova a fare della vita un’opera d’arte, di contro a una letteratura che prescinde completamente dal suo autore? Certo che no.
I temi di Fedor Dostoevskij sono universali, così universali che (se non arriva nessuno a bruciare il nostro patrimonio letterario per sempre) l’uomo ne godrà ancora per millenni trovandolo ogni giorno attuale. Così universali che sembra si possa fare a meno di conoscere la sua vita. Eppure come possiamo dimenticare l’esperienza del carcere in Siberia, e quanto abbia contato per le opere di Dostoevskij. Quanto Delitto e castigo, L’idiota, I Demoni siano romanzi nettamente superiori alle prime opere come Il Sosia e Le notti bianche. Per questo conta la vita, si fa sentire, con tutto il suo prorompente eco, dentro tutte le opere dell’ingegno umano. Del resto senza sperimentare sentimenti come l’amore, l’odio, la rabbia, come se ne potrebbe scrivere? Persino dentro Borges c’è l’uomo Borges che grida. E ne La signora Dalloway di Virginia Woolf si fa sentire tutta la disperazione di una donna che ai primi del Novecento si sente castrata nel suo ruolo di signora di qualcuno, di moglie di, che era parte di un disagio e sentimento della Woolf (che in realtà di cognome faceva Stephen, prima del matrimonio). E sembra già lampante dentro il romanzo la sua attrazione per le donne, come poi confermeranno certe lettere.
”Avrei preferito che fosse stato felice invece di lasciarci poesie infelici”, dice Kerouac a proposito di Charles Baudelaire, sottilineando due cose: il travaglio dello scrittore, sempre presente, e un sentimento di fraternità per questi infelici poeti. In realtà persino Kerouac sapeva di mentire: non avrebbe mai preferito la felicità di Baudelaire alle sue poesie, così come non avrebbe mai preferito la propria felicità ai suoi romanzi. C’è una certa vocazione all’infelicità insita nella figura dello scrittore. ”Sono stato ubriaco, sconcio, sgarbato, acido e libidinoso”, confessa John Cheever nei diari meglio di un qualsiasi Bukowski. Cheever in Italia è arrivato da poco, silenziosamente, anche se potenzialmente è esplosivo anche nella sua biografia. Si avvertono le due chiavi della letteratura: urgenza e sincerità.
Dall’altro lato Charles Bukowski è stato vittima di una perversa operazione di marketing nell’immaginario collettivo, complice il Novecento dei mezzi di comunicazione di massa: le sue opere, le sue poesie, i suoi racconti, le sue parole, sono state messe da parte per una più sicura venerazione del suo personaggio, della sua ”vita letteraria”. C’è stato un furente sovvertimento delle priorità, che ci ha messo nella condizione del rendere onore ai video e alle foto di Bukowski piuttosto che alle sue poesie. Che ci fa sentire più sicuri nel rifugio della citazione di Bukowski piuttosto che affrontare i suoi racconti. E non credo che lui sarebbe stato d’accordo. Del resto è un uomo che ha inseguito per tutta la vita il sogno di finire sui comodini dei lettori coi suoi libri.
Vita e opere dunque si intrecciano, ma possiamo risparmiarci l’arte di essere stalker letterari, mono-maniaci ossessivi. Quello che conta, alla fine di tutta la faccenda letteraria, sono sempre le parole. E quelle resteranno.