Il Vasto Siren Fest si era preannunciato prepotente nell’estate dei festival italiani con due headliners teste di serie come The National e Mogwai, a contorno nomi come John Grant, Fuck Buttons, The Soft Moon, Tycho: un cast niente male per un esordio. Se la scelta della Dna per organizzare un festival di respiro internazionale è ricaduta proprio su Vasto, il motivo è presto chiaro: cittadina arroccata in collina con vista sul mare, i palchi regalavano panorami di orizzonti marini, in una scenografia dall’impatto immediato. La vera ”sorpresa” sono state le previsioni del tempo, che in partenza annunciavano giornate piovose (dal moderato al tempestoso), e che invece hanno fallito, facendoci riconsiderare ancora una volta il valore effettivo di una previsione meteo: solo nel pomeriggio di sabato qualche ora di pioggia ha rinfrescato l’aria calda del venerdì, e così la terribile spada di Damocle che pende su ogni festival all’aperto è andata sparendo.
Ci accoglie piuttosto un’afa battente al pomeriggio del primo giorno, come a preannunciare una serata calda di musica. La location, a pochi chilometri dal mare, permette di dividersi tra l’andare a fare un tuffo a Marina di Vasto, e l’esplorazione dei palchi nella cittadina. Non c’è molto movimento, in realtà, nell’afoso pomeriggio vastese, non sembra neanche che i cittadini si siano davvero resi conto di quello che sta per accadere: la messa in scena di un festival che nelle speranze potrebbe diventare anche più grande al prossimo giro, seguendo modelli già rodati come il porto sicuro dell’Ypsigrock di Castelbuono (Pa). Una signora al bar ci chiede chi suonerà, ma sembra senz’altro più orgogliosa del Festival del cinema di Vasto che del Siren Fest. La prima domanda che salta in mente è: Vasto è pronta ad accogliere un festival? A giudicare dalla sorpresa con cui i cittadini a passeggio apprendono di non poter entrare a Piazza del Popolo, perché non dotati del braccialetto per il Festival, pare si stiano chiedendo cosa diavolo stia succedendo in città. Nonostante questo, si respira una bella aria da festival.
I primi assaggi di atmosfera del festival si cominciano a respirare nel magnifico scenario dei Giardini d’Avalos, dove antiche colonne si stagliano sul palco che affaccia direttamente sulla vista del mare, il cielo diventa mano mano sempre più rosso, in fase tramonto, e puoi sdraiarti a far entrare la pace nelle vene sul prato verde del giardino. La scelta di far suonare Adriano Viterbini (Bud Spencer Blues Explosion) è perfetta: usa la chitarra come fosse una donna che conosce da una vita, con la maestria di un Nick Drake meno intimidito, e ci regala una Kensington Blues da far arrossire i più grandi chitarristi blues. In questo clima da relax estivo si annuncia prepotente il canto di Anna Von Hausswolff, che di fianco – al Cortile d’Avalos – spezza un po’ la magia Viterbini con i suoi ghirigori della voce à la Kate Bush. La svedese è tosta, si divide tra canto e piano con abilità, ma forse sarebbe stato il caso di farla iniziare poco più tardi per favorire il sound di Viterbini.
Intanto, sulla via Adriatica, Vasto si colora di stand, e ciba il pubblico coi suoi panini alla porchetta, gli arrosticini, lo slow food, dissetandolo con le birre bionde dei suoi bar. Più giù, seguendo il percorso panoramico della Via Adriatica, si arriva all’Arena delle Grazie, dove sono gli italiani a farla da padrone. I Ninos du Brasil suonano matti il loro mix di elettronica e saudade brasiliana, fanno muovere il pubblico, persino i signori anziani ballano nella calca sotto palco, qualcuno improvvisa danze etniche, si sparano coriandoli e carte colorate nell’aria. Qui l’ingresso è gratuito, e così i braccialetti si mischiano ai bambini curiosi della cittadina e alle signore col passeggino. I Ninos si sbattono sul palco, malmenano gli strumenti con allegria e incitano al movimento e al canto, in un live forse poco “live” (massiccio, infatti, l’uso delle basi registrate) ma non per questo meno vitale. Mentre ci lasciamo trascinare dalle danze, a Piazza del Popolo, in contemporanea, ci sono i The Drones, band che conferma che in Australia non vive solo Nick Cave: i suoni delle chitarrine si stagliano nell’atmosfera del festival. I tempi sono stretti, bisogna fare delle scelte, ma è così che va a un festival. Al Cortile, per esempio, ci sono i The Soft Moon, che ricreano atmosfere più dark: e sembra che nessuno abbia osato fare una critica alla band di Oakland. Tuttavia si sa come vanno certe cose, e il pubblico al primo giorno è accorso a Vasto soprattutto per i The National, tant’è che c’è chi li aspetta sotto palco dalle nove di sera. Non che arrivando più tardi si perdessero molte posizioni o file, in realtà Vasto non è ancora pienissima, se al primo giorno la Piazza del Popolo finirà gremita di gente, il secondo giorno l’impresa non riuscirà del tutto.
Quando Matt Berninger e soci salgono sul palco e intonano Don’t Swallow the Cap è già un tripudio di strepitii e urla. Partono veloci, i The National, con esecuzioni quasi algide di pezzi dagli ultimi due album – Trouble will find me e High Violet -, ma poi si aprono, tant’è che sarà difficile giudicare il loro live senza avere a che fare con il livello di coinvolgimento profondo e il legame naturale che si instaura tra pubblico e band che mette in scena il The National Show. Dai tempi di Alligator (2005) il pubblico è cresciuto, diventato più numeroso, e conosce a memoria anche i lenti ritornelli intonati da Berninger, tant’è che il genere di critiche che vengono oggi rivolte alla band americana sono, senza un ordine particolare: stanno diventando mainstream, l’ultimo disco è sputtanato, Matt Berninger ripete sempre lo stesso show su Mr. November, se la tirano, sono freddi nell’eterna ripetizione dei pezzi l’uno dopo l’altro, soffrono l’effetto di troppe date del loro ultimo tour, attirano tutti e quando li ascoltavo io eravamo solo un centinaio di persone, tutte residenti a Milano. E poi guarda lui com’è ingrassato e stona.
Tutti i concerti hanno i loro rituali, basti pensare al bis che è già una vera e propria ripetizione di una certa quotidianità da concerto: la scenetta di uscire e tornare sul palco è diventata un rituale dello showbiz musicale che tocca tutti (o quasi) i live, tant’è che oggi la vera sorpresa diventa non cedere a questo speciale “ricatto”. Oggi sei consapevole che andando a sentire i National troverai quel particolare rituale di Matt Berninger che attraversa la folla e fa caciara: è questo che accade a un concerto dei National, e ogni concerto è un po’ un rito a cui partecipi, come una partita di calcio o una messa nera. Matt Berninger fa questo sul palco: beve, sputa, si butta addosso al pubblico (nel 2014 prende in prestito anche uno smartphone dal pubblico per onorare il rituale dell’anno: il selfie), e poi lascia tutto a un po’ di improvvisazione, come quando a Vasto si ritrova a fare la serenata al balcone a una signora (ormai diventata anche piuttosto famosa).
Alternando pezzi della loro discografia che risalgono a vecchi capolavori come Alligator (Abel, The Geese of Beverly Road) e Boxer (Squalor Victoria, e gli intramontabili classici Slow Show e Fake Empire), con le ballate degli ultimi due lavori (Pink Rabbits, England), la prima parte che precede l’encore ripercorre le tappe di un gruppo che riesce a morderti la testa (I was afraid I’d eat your brains), con i suoni monocordi della batteria di Bryan Devendorf e l’ormai intramontabile disposizione a tridente dei gemelli Dessner e di Berninger sul palco. Spossati un po’ dalla lunghezza dell’ultimo tour, capita anche il pezzo in cui vanno fuori tempo tra voce e chitarre (Graceless), che però risulta lo stesso coinvolgente. Il mistero dei National è quello dei pezzi che si attaccano al cervello come piccole zecche sonore, cosa che probabilmente ha favorito anche un allargamento di pubblico da High Violet in poi. L’encore ci ripropone i tre classici della discografia National che concludono le loro esibizioni: dalla Mr. November dove Matt dà di matto come suo solito, fino alla Vanderlyle Crybaby Geeks dove si lascia accompagnare dal pubblico nel coro ”all the very best of us / string ourselves up for love”.
Con quest’atmosfera calda nelle orecchie ci avviamo a Marina di Vasto per l’after del festival, che prevede il dj-set di Giorgio Gigli e dei Jolly Mare al Lido La Ciucculella (un nome, un destino). Qui prenderà corpo la prima (che per fortuna si rivelerà anche l’unica), grossa cantonata dell’organizzazione: ci ritroviamo in una discoteca da lido delle più classiche, con tanto di festa di laurea già in corso, speaker da villaggio turistico che recita “su le mani”, musica – a dir poco – fuori dai canoni del festival. I festivalieri entrano alla spicciolata, in mezzo a un pubblico eterogeneo e pagante ci si sente quasi degli intrusi, la partecipazione dei festivalieri è scarsa e la cosa non ci stupisce. Qualcuno, probabilmente di gusti più eclettici dei nostri, potrà anche essersi divertito. Noi siamo scappati prima di vedere Gigli salire in consolle.
Ma un altro giorno sta per sorgere a Vasto, e abbiamo colto un certo fermento in giro (anche se non dappertutto).
Al sabato il cielo sembra più minaccioso con le sue nuvole cattive, ma i cattivi presagi di pioggia si risolvono in poche ore di panico e acquazzoni nel primo pomeriggio, che ci accompagnano durante il pranzo in piazzetta. Ci sono gruppi sparsi di ragazzi che indossano i braccialetti in giro, ma in realtà non c’è ancora molto da fare: si vivacchia, aspettando il tramonto e l’inizio dei concerti. L’atmosfera diventa più terrificante durante il live di Thony, cantautrice siciliana che si esibisce al Giardino d’Avalos, mentre caratteristici fulmini appaiono dietro di lei impaurendo il pubblico: in realtà resteranno solo un ricordo che arreda il set ed impreziosisce la voce multiforme di Thony, che ci regala un bel live chitarra e voce, rilassato e godibile, ricco di spontaneità. Sul palco, accanto a lei, torna Adriano Viterbini ad accompagnarla alla chitarra, ripercorrendo la magia piacevole della serata precedente. C’è più gente sul prato, umido dal pomeriggio, c’è anche più voglia di ascoltare musica – pare – e un poco più di fretta, perché i tempi del sabato sono ancora più fugaci: alle 21 si parte con Tycho e alle 21.45 c’è John Grant al main stage.
L’americano Scott Hansen presenta al pubblico brani dal suo ultimo lavoro, Awake, con una nitidezza e precisione chirurgiche, che coinvolgono il pubblico e lo lasciano a sognare spiagge in tinte pastello. La chillwave di Tycho è pulviscolare, umida, puoi ascoltarla con le orecchie piene di sabbia marina o, come a Vasto, con il terrore della pioggia incombente. Il risultato sarà sempre che non riuscirai a staccartene senza provare, almeno per un attimo, una grande nostalgia. Ma tutto finisce, e il mordi e fuggi della dimensione festivaliera è aiutato da una sincronizzazione perfetta tra i concerti: il live di Tycho dura 45 minuti (e poco meno), giusto il tempo di passare da un palco all’altro esibendo il braccialetto rituale (c’è da fare una sola critica alla logistica del festival, questo passaggio tra i due palchi principali che costringe all’esibizione continua del braccialetto, problema quasi inevitabile nel contesto di spazi pubblici cittadini).
Sul main stage John Grant arriva in perfetto orario, con una tshirt nera alquanto aggressiva, la barba incolta, e il look trasandato: apre con uno dei capolavori dell’ultimo disco, Vietnam, la scelta di un pezzo perfetto per abituare il pubblico all’atmosfera che resterà viva per tutto il tempo. Il greatest motherfucker di Pale Green Ghosts è spietato nel mettere in scena i sentimenti, e alimentarli come fuochi sonori: sul palco balla a ritmo dei pezzi più elettronici (Gmf), e passa al piano per le classiche ballate più profonde (Where dreams go to die), accompagnato dalla sua band islandese che regala improvvisazioni mozzafiato che riscaldano l’ambiente. La contemporaneità di Grant è forse in quella caratteristica originale di mischiare i sound classici delle ballate con un’elettronica strana, danzante, e una voce che dal vivo risulta perfetta e calda. Probabilmente uno dei live più intensi del Siren Fest è proprio quello del cantautore americano, che riesce a fendere ed evocare distanze in maniera magica. Grant dice di avere meno tempo per suonare di quello che vorrebbe, e probabilmente sfora un po’ dall’ora del live previsto, e si concede jamming session insieme alla band che regalano un concerto di alto livello.
Al Cortile intanto i Fuck Buttons sono già iniziati: il duo di Bristol ci va subito giù forte e duro con il suo sound fendente, ripercorrendo le tappe dell’ultimo disco Slow Focus, mentre un improvviso vento sferza la faccia del pubblico, agitato in una specie di trance collettiva nervosa e danzante. Non pioverà, nonostante le quattro gocce che minacciano l’aria tersa, ma pioveranno i suoni e rumori di un’elettronica fredda e acida.
Qualcuno resiste al live fino alla fine, altri vanno a cercare posto per gli headliner della seconda sera a Piazza del Popolo, i magnetici Mogwai, che come loro solito alternano il loro post rock puro ad improvvisi suoni schizoidi che atterriscono la piazza, silenziosi e nello stesso tempo agitatori scottanti di noise. Ed infatti, quando gli scozzesi salgono sul palco, le prime file sono già compattate all’inverosimile, mentre la piazza si riempie dai reduci dei Fuck Buttons. Parlare del concerto dei Mogwai commentando freddamente la scaletta sarebbe una vera ingiustizia per chi ha saputo per un’ora e mezza, e senza soluzione di continuità, tenere la piazza in balia della propria musica, il tutto con poche parole (”ciao, buonasera, cheers” Braithwaite) e molti fatti, partendo subito forte con due pezzi come White Noise e I’m Jim Morrison, I’m Dead. Si è avuta subito la netta sensazione che lo show messo in campo dai sei di Glasgow sia stato fruito in maniera diversa da chi lo ha ascoltato da lontano e chi da vicino. Mentre i primi hanno potuto godere l’impeccabilità esecutiva e l’ottima resa sonora, chi ha avuto la fortuna di essere a pochi metri dal palco si è ritrovato letteralmente immerso da un mare di onde sonore, un filo diretto tra la platea e il palco magistralmente tenuto dai sei, assieme a una scenografia (i tre esagoni e le luci stroboscopiche perfettamente sintonizzati) che regala un’esperienza multisensoriale del tutto totalizzante. E non importa che si tratti del synth di Remurdered, del piano sognante di Auto Rock, o dei saliscendi improvvisi di Hunted By a Freak (che assieme a Mogwai Fear Satan compongono il bis): il tutto è un fiume in piena. Alla fine dell’encore si fa fatica ad accettare la fine del concerto, ma anche quella dell’intero festival.
Conclusioni. Un ottimo festival, con un cast di qualità (di quelli che arricchiscono il panorama della musica che attraversa il belpaese), e quell’ecletticità culturale che tanto ci piace (parliamo, per esempio, degli incontri letterari: uno dedicato a John Fante, l’altro con Carlo Bordone; o delle proiezioni di film in tarda notte al Cortile d’Avalos). Si sa che la bellezza da sola è quasi sprecata, e quando vediamo che la bellezza dei paesaggi italiani si accompagna anche alla qualità di eventi che riescono a valorizzare quelle terre, quella bellezza acquista anche un qualcosa in più: diventa attizzante in poche parole. Se di migliorie per il prossimo anno possiamo parlare, potremmo suggerire di consentire al pubblico del festival di avere tutto a portata di mano, e di non spostare eventi come il post-serata a Marina di Vasto (il djset sulla via Adratica della seconda sera è stato più riuscito di quello al Lido Ciucculella: forse più intimo, ma più da dimensione festival). Qualcosa ci dice che l’anno prossimo questo festival diventerà più importante, magari riuscirà a trovare un suo spazio, e perché no? saprà crescere e farsi largo fino a far smettere tutti gli stereotipi che girano in questo paese intorno al concetto di ”festival”. Magari, un giorno, a forza di bella musica, ascolteremo i Mogwai in radio, al posto della Pausini.
a cura di Giovanna Taverni, Federica Rinaldi e Seppino Di Trana (autore di tutti gli scatti)
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Molto bello, peccato neanche una riga sul bel live dei DRY THE RIVER
purtroppo c'erano anche altri gruppi interessanti (vedi i Joycut) che sono stati sacrificati dalle coincidenze, ma è questo un festival 🙂