C’è un interrogativo che si impone oggi all’attenzione di chi vuole realmente capire quello che sta succedendo in mezzo mondo, man mano che la crisi economico-finanziaria degli ultimi anni continua a dispiegare i propri effetti regressivi sulle vite di sempre più ampie fasce di popolazione: può esistere un modello economico-sociale, storicamente, non superabile da un’alternativa migliore?
Se l’economia capitalista genera forme sociali che garantiscono il benessere di una esigua minoranza di individui, mentre alle masse — a seconda della regione geografica in cui la sorte fa venire al mondo ciascun singolo — tocca la casuale alternativa tra una condizione esistenziale di persistente difficoltà e una prospettiva di vita in cui già la mera sopravvivenza è un lusso, insomma: com’è possibile che la messa in discussione del sistema economico rimanga sempre ai margini del dibattito politico mediatico?
Se si riflette sul significato degli slogan transnazionali e delle rivendicazioni politiche che stanno alla base delle ondate montanti di protesta, il dato comune che emerge è duplice: una generica matrice anti-capitalista e un diffuso bisogno di democrazia partecipata. In quel “We are 99%”, dunque, c’è soprattutto una critica radicale a quella «forma di regime politico in cui il potere è nelle mani di pochi, eminenti per forza economica e sociale», che corrisponde esattamente alla definizione di ciò che è un’oligarchia (capitalista).
D’altra parte, un’accusa agli oligarchi, alfieri del capitalismo finanziario, è testuale e nettissima in un recente intervento del premio Nobel per l’economia Paul Krugman:
«i Masters of the Universe di Wall Street capiscono, nel profondo del loro cuore, quanto sia moralmente indifendibile la loro posizione. (…). Sono gente che è diventata ricca trafficando con complessi schemi finanziari che, lungi dal portare evidenti benefici economici agli americani, hanno contribuito a gettarci in una crisi i cui contraccolpi continuano a devastare la vita di decine di milioni di loro concittadini.
Non hanno ancora pagato nulla. Le loro istituzioni sono state salvate dalla bancarotta dai contribuenti, con poche conseguenze per loro. Continuano a beneficiare di garanzie federali esplicite ed implicite — fondamentalmente, siamo ancora in una partita in cui loro fanno testa e vincono, mentre i contribuenti fanno croce e perdono. E beneficiano anche di scappatoie fiscali grazie alle quali, spesso, gente che ha redditi multimilionari paga meno tasse delle famiglie della classe media.
Questo trattamento speciale non sopporta un’analisi approfondita e, perciò, secondo loro, non ci deve essere nessuna analisi approfondita. Chiunque metta in evidenza ciò che è ovvio, per quanto possa farlo in modo calmo e moderato, deve essere demonizzato e cacciato via. Infatti, più una critica è ragionevole e moderata, più chi la porta dovrà essere immediatamente demonizzato (…).
Chi sono, dunque, gli antiamericani? Non i manifestanti, che cercano semplicemente di far sentire la propria voce. No, i veri estremisti, qui, sono gli oligarchi americani, che vogliono soffocare qualsiasi critica sulle fonti della loro ricchezza».
Va specificato che l’analisi di Krugman — tanto lucida, quanto esplicita — si riferisce espressamente alle manifestazioni di protesta statunitensi: quelle ormai universalmente note come “Occupy Wall Street”, promosse da quel simbolico (e democratico) «99% che non tollererà più l’avidità e la corruzione del 1%»; un movimento che ha scelto di usare «la tattica rivoluzionaria della primavera araba» e di «incoraggiare l’uso della nonviolenza per massimizzare la sicurezza di tutti i partecipanti».
Qualcuno ha accostato questo neonato movimento a quello partito da Seattle, nello scorcio conclusivo del millennio scorso.
Molto interessanti, in proposito, le considerazioni di Naomi Klein, una delle più note figure di riferimento del movimento contro la globalizzazione capitalistica degli anni Novanta:
«la più grande differenza che fa un decennio è che nel 1999 stavamo ereditando un capitalismo al culmine di un boom economico frenetico. La disoccupazione era bassa, i portafogli azionari erano gonfi. E i media erano ubriachi di denaro facile. Allora era tutto in fase di apertura, non di chiusura.
Abbiamo evidenziato che la deregolamentazione che c’era dietro quella frenesia ha espresso il suo prezzo. Il danneggiamento degli standard del lavoro. Il danneggiamento degli standard ambientali. Le aziende stavano diventando più potenti dei governi e questo stava danneggiando le nostre democrazie. Ma a essere onesti, mentre i bei tempi scorrevano si imponeva di alimentare un sistema economico basato sull’avidità, almeno nei paesi ricchi.
Dieci anni dopo sembra che non ci siano più paesi ricchi. Solo un sacco di gente ricca. Persone che si sono arricchite saccheggiando la ricchezza pubblica ed esaurendo le risorse naturali in tutto il mondo.
Il punto è che ognuno oggi può vedere che il sistema è profondamente ingiusto e che sta sbandando fuori controllo. L’avidità senza freni ha demolito l’economia globale. E sta demolendo anche la natura. (…). La nuova normalità sono i disastri seriali: economici ed ecologici.
Questi sono i fatti sul terreno. Sono così palesi, così evidenti, che è molto più facile entrare in contatto con il pubblico di quanto non lo fosse nel 1999, e per costruire il movimento velocemente.
Sappiamo tutti che il mondo è capovolto: ci comportiamo come se non ci fosse una fine a ciò che è realmente finito — i combustibili fossili e lo spazio atmosferico per assorbire le loro emissioni. E ci comportiamo come se ci fossero limiti rigorosi e inamovibili a quanto è in realtà abbondante — le risorse finanziarie per costruire il tipo di società della quale abbiamo bisogno.
Il compito del nostro tempo è quello di cambiare questa situazione: per sfidare questa falsa scarsità. Insistere sul fatto che possiamo permetterci di costruire una società decente e inclusiva — e al tempo stesso, rispettare i limiti reali di ciò che la terra può sopportare.
I cambiamenti climatici ci dicono che dobbiamo fare questo con una scadenza. Questa volta il nostro movimento non può distrarsi, dividersi, o essere bruciato o spazzata via dagli eventi. Questa volta dobbiamo avere successo. E non sto parlando di regolamentare l’operato delle banche e aumentare le tasse ai ricchi, anche se questo è importante.
Sto parlando di cambiare i valori di base che governano la nostra società. Quest’obiettivo è difficile da inserire in una singola rivendicazione mediaticamente efficace, ed è altrettanto difficile immaginare come portarlo avanti. Ma il fatto di essere difficile non la rende meno urgente (…)».
Con queste premesse, dovrebbe essere ormai chiaro ed evidente che la giornata di mobilitazione planetaria convocata per il 15 ottobre scorso, all’insegna dello slogan “United for global change” aveva un significato che i media mainstream nazionali hanno completamente occultato, riducendo la copertura informativa pressoché esclusivamente alla cronaca e all’analisi degli scontri di piazza.
Scontri sui quali è doveroso soffermarsi, ma non certo a discapito delle ragioni della protesta.
Mobilitazione globale permanente, dunque: unire le masse popolari radicalmente critiche verso il modello economico-sociale imperante, con l’obiettivo di realizzare forme più compiute di democrazia, attraverso la pacifica occupazione delle principali piazze dei diversi Paesi.
Tutto limpido e alla luce del sole. Messo nero su bianco, anzi:
«Uniti per un cambiamento globale: più di 1.000 città – 82 paesi. Il 15 Ottobre gente di tutto il mondo prenderà le strade e le piazze.
Dall’America all’Asia, dall’Africa all’Europa, la gente si sta sollevando per rivendicare i propri diritti e chiedere una democrazia autentica. Ora, è arrivato il momento di unirci tutti in una protesta globale non violenta. I poteri dominanti lavorano a beneficio di pochi, ignorando la volontà di una vasta maggioranza e senza tenere conto del costo umano ed ecologico che dobbiamo pagare. Questa situazione intollerabile deve finire. Uniti in una sola voce, faremo sapere ai politici e alle élite finanziarie a cui sono asserviti, che ora siamo noi, i popoli, che decideremo il nostro futuro. Non siamo merce nelle mani di politici e banchieri che non ci rappresentano. Il 15 Ottobre ci troveremo in piazza per mettere in moto il cambiamento globale che vogliamo. Manifesteremo pacificamente, dibatteremo e ci organizzeremo fino a riuscirci. È ora che ci uniamo. È ora che ci ascoltino. People of the world, rise up (…)!».
Va sottolineato che il contenuto dell’appello internazionale, testé trascritto, in Italia, raccoglieva un diffuso consenso, testimoniato, chiaramente, ad esempio, dal contenuto di questo pubblico manifesto di adesione:
«Uniti per l’alternativa ha scelto fin dall’inizio di raccogliere la sfida degli indignados globali, perché è proprio la ricerca, paziente e faticosa, dell’unità, della ricomposizione delle lotte, la cifra distintiva del suo percorso. Connettere le differenze, questo è il primo obiettivo da praticare per invertire la rotta della crisi!
(…) Chiaramente, l’unità da sola non è sufficiente. Non basta combinare le resistenze operaie con le lotte studentesche o in difesa dei beni comuni, c’è bisogno di un progetto comune di trasformazione. L’alternativa è questo orizzonte, questo desiderio di cambiamento che si fa programma politico concreto: la capacità di egemonia dei movimenti — ampiamente dimostrata dai risultati referendari di giugno — non può non prendere la forma di un processo costituente di un nuovo modello sociale, economico e politico.
(…) In questo senso è decisivo che le manifestazioni siano partecipate da centinaia di migliaia di persone. I numeri da soli non bastano, di questo ne siamo certi, ma di fronte alla violenza della finanza e delle banche, i numeri sono la prima condizione per cominciare ad affermare un rapporto di forza favorevole. Ci vuole poi una mobilitazione permanente, che sappia fare tesoro delle straordinarie esperienze americane di questi giorni, oltre che della primavera araba e delle mobilitazioni spagnole. (…)»
Cosa doveva succedere, allora, nel nostro Paese, il 15 ottobre? Far confluire nella capitale centinaia di migliaia di persone, occupare con questa massa una delle piazze storiche delle proteste popolari (piazza San Giovanni), piantare le tende in loco e difendere con tecniche di lotta nonviolenta questo neonato presidio permanente di democrazia, in cui sarebbero stati meglio definiti gli obiettivi politici immediati della protesta popolare e i metodi pacifici e democratici per raggiungerli e mantenerli.
Cosa ha impedito che tutto questo potesse accadere? Un’esplosione improvvisa di violenza nichilista. Una furia devastatrice che ha dapprima spezzato il corteo e poi lo ha costretto a disperdersi e ad abbandonare il progetto iniziale, visto che nella piazza e nelle strade attigue si era, ormai, scatenata una battaglia con le forze dell’ordine che, di fatto, vanificava ogni possibilità di raggiungere gli obiettivi programmati.
Soffermarsi sul “cosa” ha impedito la riuscita della manifestazione più che soffermarsi a lungo a dibattere sul “chi” ha determinato tutto questo è mero buon senso, dato che l’unico elemento certo e indiscutibile, al momento, è il rapporto numerico tra fautori della devastazione e manifestanti che invece avrebbero preferito far ricorso a forme di lotta nonviolente.
Su questo punto, Marco Rovelli ci offre una ricostruzione che costituisce un ottimo punto di partenza per una più attenta analisi della vicenda:
«Eravamo tanti. La narrazione comincia da qui. Di questo dobbiamo far memoria. Eravamo tanti, un fiume in piena. E dobbiamo andare oltre, e prendere lezione, e costruire pratiche di movimento che adesso non ci sono.
Non è questione di violenza e non violenza, non è questa la questione. (Che poi, nulla è più violento del “sistema”, oggi, che ci sta portando via presente e futuro, nostro e del pianeta: ogni altra violenza, oggi, è in scala inferiore rispetto a questa). La violenza accade, può accadere, la Storia ce lo insegna che a volte deve accadere. A certe condizioni: se è razionale rispetto allo scopo, dunque sensata e può produrre effetti reali in un contesto di strategia; se non vi sono altri mezzi possibili (e questo, per dire, esclude le autolegittimazioni di quella parte di movimento che rivendica gli scontri paragonando le pratiche della piazza romana a quelle di piazza Tahrir). Non siamo in presenza di queste condizioni. Ben miope è la mistica degli scontri di piazza. Che non si inseriscono in alcuna strategia politica, che non producono alcun effetto positivo, che contribuiscono a distruggere un movimento e non a costruirlo. In che cosa oggi siamo più vicini alla demolizione del sistema? In nulla.
E ancora — rispetto alla “narrazione” ufficiale dei media — non si parli di black bloc, con la retorica buoni indignati/cattivi venuti da fuori. (…). Non si parli, perciò, neppure di infiltrati, ciò che costituisce per molti del movimento un bell’alibi.
La questione principale è un’altra. È la questione delle pratiche. Che devono essere condivise. Non si parassita un corteo che ha altri obiettivi e convocato con altre pratiche, non gli si impone la propria minoritaria presenza. Questa è la violenza peggiore. Imporre agli altri le proprie pratiche. Prendendo la testa in 300 di una manifestazione di 300mila persone e segnando il destino di quella manifestazione. È una questione di democrazia. (…)»
Le riflessioni di Rovelli sono importanti — anche se non condivisibili al cento per cento — perché evidenziano in maniera molto chiara e sintetica le tante (e intricate) questioni che l’esplosione di violenza incontrollata del 15 ottobre italiano lasciano aperte.
Mettendo un attimo da parte la questione delle forme di lotta politica (lotte nonviolente vs. uso della forza), indubbiamente, a quella minoranza che ha imposto la logica dello scontro di piazza a quella della piazza occupata pacificamente e trasformata in presidio di rinnovamento democratico, vanno fatte notare alcune cose.
Innanzi tutto, appunto, il loro imporsi come un’oligarchia di segno opposto a quella che questo nascente movimento di massa sta cercando di combattere democraticamente; con il che il movimento — almeno in Italia — finisce col rimanere schiacciato tra due oligarchie: quella capitalista e quella nichilista.
Senz’altro quella rabbia diffusa che sta alla base di comunicati come quello che apertamente inneggiava all’insurrezione è ben sintetizzata in considerazioni di questo tipo:
«se c’era un paese che doveva trasformare l’indignazione in incazzatura di massa, quello era proprio l’Italia, che vive un presente veramente penoso»
Ma se questa rabbia si spiega con la particolarità della situazione politica italiana, che non sembra assolutamente in grado di offrire speranze di concreto miglioramento né ai lavoratori precari, né a chi è senza lavoro, in ogni caso, tutto ciò non giustifica una violenza che resta fine a se stessa.
Se pertanto il nucleo centrale della critica di chi sceglie lo scontro e la devastazione si può riassumere in una questione di inefficacia delle forme di lotte nonviolente: se, insomma, il problema è che i cortei e le manifestazioni a nulla servirebbero, perché la situazione di chi protesta, poi, non migliora mai, quando la protesta volge al termine, l’autolesionismo della scelta di segno opposto diventa innegabile.
Diversamente da come scrive Rovelli, infatti, non solo la devastazione di piazza non serve a demolire il sistema, ma addirittura fa ulteriormente regredire le condizioni di vita delle classi più disagiate, dato che al disagio economico, si aggiunge la risposta repressiva dell’ordine costituito che travalica le responsabilità dei singoli, finendo col criminalizzare (e non solo da un punto di vista mediatico) la protesta in quanto tale.
In altre parole, al danno di una condizione di vita particolarmente disagiata si viene così ad aggiungere la beffa della sempre più difficile possibilità di costruire una proposta di alternativa politica che sia realmente in grado di invertire la tendenza degli ultimi decenni: quella di privilegiare, sempre e comunque, gli interessi dei potentati economici (che accumulano, per generazioni, i capitali) a danno di quelli delle masse dei lavoratori (che restano escluse dal processo di accumulazione capitalistica).
In questo senso, quindi, se si riconosce — come anche Rovelli fa — il potenziale distruttivo, verso le ragioni della protesta e della stragrande maggioranza di coloro che la sostengono, delle pratiche di devastazione, diventa prioritario scegliere democraticamente un metodo politico di lotta e praticarlo coerentemente fino in fondo.