III. Tenco, Luigi Tenco.
Tomy non si stupì di trovare un disco di Tenco dentro allo scatolone. Il nonno lo adorava e custodiva come una reliquia una vecchia foto in cui erano ritratti insieme nel ’57, fuori da una bettola di Roma, scattata dopo un concerto. Entrambi i visi erano giovani e spensierati, con quello strano sorriso che contraddistingueva i ragazzi del dopo guerra ancora restii a lasciarsi andare, e gli occhi stranieri di come ci si è sempre immaginati Luigi Tenco. Era così legato a quel cantante che aveva chiamato Angela sua figlia, la madre di Tomy, in onore di quella canzone che le cantava quando ancora era dentro la pancia e aveva continuato a cantarle per farla addormentare, sempre con un filo di malinconia, quando era diventata bambina. Era impossibile, per Tomy, distaccare le canzoni di Tenco dalla sua famiglia e, soprattutto, da sua madre. Si poteva dire che ci fosse nato con quei brani, passati come un’eredità genetica dal nonno alla madre, e in linea sanguinea fino a lui. Era un vinile raro quello che stringeva fra le mani, uno degli ultimi prima che scomparisse in quel mistero sanremese, la copertina era una foto accigliata di Tenco stesso, uno sguardo che più dell’aria del maledetto che gli era stata attribuita faceva emergere tutta la rabbia e lo sconforto che doveva aver vissuto. Quando Tomy tirò fuori il vinile usci la fotografia del nonno, che tante volte aveva visto da bambino senza mai poterla toccare e la malinconia lo avvolse, come facevano le mani grandi di suo nonno quando lo abbracciava e gli sussurrava un brano nelle orecchie per farlo smettere di piangere.
Io sono uno / che sorride di rado, / questo è vero, / ma in giro ce ne sono già tanti / che ridono e sorridono sempre, / però poi non ti dicono mai / cosa pensano dentro.
Tomy era piccolo, avrà avuto circa otto anni, sua madre si era appena tagliata i capelli biondi cenere a caschetto e la stava guardando, seduto a terra vicino alla porta del bagno, mentre lei si truccava davanti allo specchio. C’era quel disco che andava, e lei cantava rivolgendogli ogni tanto degli sguardi pieni di calore ed eccitazione. La stessa forza negli occhi che l’aveva accompagnata fino alla fine. Tomy stava scomodo nella camicia che gli aveva messo mentre aspettavano che suo padre tornasse dal lavoro per andare a cena fuori. Era il loro decimo anniversario di matrimonio e avevano incluso anche il loro figlio in quella ricorrenza che, per uno strano scherzo del destino, cadeva due giorni dopo il suo compleanno. La camicia era il regalo di uno zio, troppo stretta per le spalle che cercavano di farsi spazio nel suo piccolo corpicino. Pensava che sua madre fosse bellissima, troppo per quel padre così poco curato e poco presente che tornava sempre troppo stanco dal lavoro per giocare. Quando erano arrivati al ristorante gli occhi di tutti cadevano su di lei, come con una star dell’epoca d’oro del cinema hollywodiano. Il menù era troppo grande per le piccole mani di Tomy che ancora faceva fatica a leggere: «Cosa prendi piccolino?» gli aveva chiesto Angela con una voce calda e dolce. Suo padre era in bagno e il mondo era ancora loro, era certo che, come ogni bambino, sarebbe stata la sua unica donna. Aveva trovato il cameriere scortese e poco paziente con lui, e l’immagine degli altri adulti che silenziosamente cenavano senza interessarsi l’uno all’altro gli era rimasta impressa come l’illustrazione del termine borghesia, che ogni tanto sentiva alla tv. Ancora oggi quando pensava a quella parola gli tornava in mente quella cena.
Cosa c’è di strano / Da guardare tanto / Forse perché noi non siamo vestiti bene / Pettinati come voi / E se non vi piace / Così come siamo / Non vi resta che voltarvi / Dall’altra parte / E non far caso a noi.
Erano passati anni da quella cena in cui Tomy aveva sentito tante cose diverse, aveva parlato con suo padre della sua compagna di classe che gli aveva macchiato il vestito mentre disegnavano, poi lui e sua madre si erano messi a discutere circa una questione di soldi che non aveva capito e non gli erano sembrati felici. Lui, invece, era contento di non essere stato come quei borghesi degli altri tavoli e si era sentito così stanco di ritorno a casa che si era addormentato in macchina. Tomy era cresciuto e aveva iniziato il liceo classico, ancora non aveva conosciuto Sam e con le altre donne gli andava abbastanza male, ma aveva scoperto la letteratura e aveva iniziato a scrivere poesie, come tanti altri adolescenti quando iniziano a capire qualcosa di se stessi. Angela aveva iniziato a stare male, sempre più spesso, ed era dimagrita notevolmente, conservando la sua bellezza, ma gli aveva detto che era l’età e lui non si era preoccupato, troppo impegnato a vivere per poter comprendere quello che accadeva. Era stata dopo una litigata circa il suo poco impegno a scuola che lei si sentì male e fu portata per la prima volta all’ospedale. Tomy a distanza di anni non riesciuva ancora a dividere i due fatti, come se avergli detto che voleva diventare uno scrittore avesse rovinato anche la vita di sua madre, che magari aveva altri progetti per lui, quando in realtà lo avrebbe comunque sempre supportato se ce l’avesse fatta a superare la notte. Aveva tenuto nascosto tutte le sue sofferenze, soltanto quando i dottori dissero cos’era successo Tomy e suo padre vennero a conoscenza della malattia di Angela. Aveva allora visto quel ristorante e le schiene dei suoi genitori che per mano uscivano davanti a lui che li seguiva come un cane fedele, e anche in quel momento aveva visto sua madre uscire, per dove non lo sapeva, ma si augurava avesse stretto di nuovo la mano con suo padre.
E lontano lontano nel tempo / qualche cosa negli occhi di un altro / ti farà ripensare ai miei occhi / a quegli occhi che t’amavano tanto.
Lo sguardo di suo padre si era spento quella notte quando Angela lasciò i due uomini che aveva tanto amato e a cui non aveva mai fatto mancare nulla. E così si erano ritrovati da soli, ognuno a piangerla in maniera diversa. Tomy scrivendo pagine e pagine di poesie che poi avrebbe bruciato, suo padre sempre più nel lavoro, sempre meno attento al mondo che lo attorniava. Al funerale suo nonno si era seduto vicino a lui, le mani forti ora tremavano e il suo corpo era svuotato delle forze di un tempo ma continuava a stringergli il braccio in lacrime ed era sicuro di aver sentito cantare Tenco quando aveva baciato la bara. Tomy si ricordava di tutte la canzoni che gli erano state trasmesse nella sua infanzia. La perdita di sua madre lo aveva lasciato svuotato di certezze e affetto, aveva contribuito a fargli credere che nel mondo non c’è nulla di certo, salvaguardandolo allo stesso tempo dal cinismo. Tenco continuava a ricordargli sua madre e quei momenti infantili che gli erano sembrati così felici. Le sue canzoni gli facevano ricordare gli occhi di quella madre che l’aveva sempre tenuto in considerazione, portando riparo all’assenza e alla difficile comprensione di suo padre. Tomy si rendeva conto di quanti ricordi vengano affidati all’interpretazione che ognuno dà alle canzoni, il disco era già la seconda volta che si ripeteva, senza che i loro autori si possano rendere conto di quanto siano importanti per le vite degli altri. Con gli occhi un po’ lucidi si tolse le Majestic nere per prendere le sigarette, ma anche Tenco era tornato nella sua vita, come se avesse voluto cancellare ogni cosa e quello scatolone gli riportasse alla luce quella che era la sua esistenza e che aveva impiegato anni a sciogliere.
E gli occhi intorno cercano / quell’avvenire che avevano sognato, / ma i sogni sono ancora sogni / e l’avvenire è ormai passato. / Un giorno dopo l’altro / la vita se ne va: / domani sarà un giorno / uguale a ieri.
TUTTE LE ILLUSTRAZIONI SONO STATE REALIZZATE DA AN.