Se la democrazia fosse una cosa vera, e non soltanto un’idea o, meglio, un’abitudine, forse non ci sarebbe nemmeno bisogno di ricordarne il valore. Se la si potesse toccare sarebbe, probabilmente, più facile capire perché poco a poco ci sta sfuggendo di mano. Come tutte le cose che valgono, la si sente soltanto quando ormai non c’è più o quando viene storpiata da chi è eletto per preservarla e finisce, invece, per controllarla secondo i propri comodi. Perché la democrazia è una creatura fragile che va difesa, e non mantenuta con le minacce, politiche e fisiche, dei suoi agenti. In questo senso porre la fiducia al Jobs Act la ferisce quanto chi comanda le manganellate della polizia agli operai della Ast, ingiustificate e violente entrambi, a discapito dell’equità che uno dovrebbe promuovere e l’altro difendere. Ma è cosa nota nella storia dell’uomo, spesso la mano che stringe il potere (o il manganello) si sente sempre superiore a quella che porta soltanto la propria rivendicazione di dignità e giustizia.
La giustizia, la stessa, negata ai famigliari di Stefano Cucchi da un tribunale che ha assolto tutti i suoi aguzzini, colpendo così due volte il suo corpo martoriato e l’idea stessa che la legge sia uguale per tutti e non dipenda dalla divisa (o il potere) che indossi. Come se Federico Aldrovandi, la Diaz e tutti gli altri casi fossero già dimenticati. Ed è rimanere in silenzio, non versando le stesse lacrime, a renderci più soli, sottomessi alla paura che se capitasse a uno di noi saremmo avvolti dallo stesso oblio. Se non, in qualche, modo a renderci complici dei colpi inferti alla nostra già fragile democrazia. Forse perché indignarsi non basta più, ma bisogna anche soffrire insieme per poter rivendicare i propri diritti, soprattutto se sono negati agli altri. Perché alla base di una società serena c’è anche l’idea che se mancano il lavoro o alcune persone vengono private di diritti fondamentali allora, mancano a tutti.
Non serve essere parenti di Stefano, amici di Federico o figli degli operai della Ast per comprendere l’ingiustizia che hanno subito, non serve essere laureati (e nemmeno urlarlo da un palco) per capire come la recessione sia una scusa per oscurare con una coperta tutto quello che non va. Il pil potrà smettere di crescere, ma resteremo umani, quando inizierà a non coprire più tutto il marcio, invece, sarà impossibile continuare a camminare a testa bassa, sperando di non essere importunati da un senzatetto che ti chiede l’elemosina, che il treno non sia in ritardo per un suicidio o uno sciopero, o che il peggior quartiere della tua città non diventi meno pericoloso della volante che gira per il centro per proteggerti. La diffidenza indiscriminata, quella che ti costringe a vedere tutto nero, è un’arma potente, destinata a mettere in dubbio ogni cosa e ogni persona, persino l’idea stessa del vivere insieme. Ogni errore, ogni ingiustizia, ogni manganellata non fanno altro che alimentare il bacino della sua proliferazione nelle sue mutazioni peggiori. Sulla diffidenza c’è chi ci fa le campagne elettorali e chi, invece, ne viene ucciso. I servitori dello stato che fanno il loro lavoro, i politici onesti, l’immigrato alla ricerca di un posto migliore, il ragazzo che decide di non emigrare. La diffidenza è l’arma più efficace per sopprimere la democrazia, perché è quel mezzo che ti fa mettere in dubbio persino te stesso e le tue possibilità, e ti costringe a stare in silenzio. È l’insincerità del Gattopardo, che si ritira ancora prima di essere sconfitto perché tanto nulla cambia, è ignavia e ignoranza ma, soprattutto, pigrizia. È quella convinzione che se non succede a te allora non esiste, finché non è troppo tardi, perché prima o poi ci risveglieremo e, allora, non potremo più negare la realtà, che la nostra sicurezza di cittadini l’abbiamo barattata per la vita degli altri.
Siamo tutti Stefano Cucchi, e lo saremo finché sosterremo che non è questa la democrazia che vogliamo, che non è quella degli slogan dei governi o di chi comanda di attaccare i manifestanti. Non esserlo, o smettere di farlo, significherebbe diventare complici di chi, silenziosamente (ma neanche troppo), sta rubando l’identità stessa dell’essere cittadini liberi.
Soltanto quando la democrazia non sarà più soltanto una parola, o un libro da studiare, ma un valore reale da difendere contro le continue minacce che le si presentano davanti, solo allora Stefano, Federico, le vittime delle stragi, gli eroi dello stato e tutti gli altri non saranno, davvero, morti dello stato senza giustizia.