Da un punto all’altro, come atomi impazziti, fuori controllo e senza tempo per rifiatare. Questo è il Club to Club, più che un festival, una maratona senza sosta che mette a dura prova i limiti di chi partecipa. Se ti mancano le forze per un momento la musica te le ridà, per non restare indietro, per non perderti in mezzo alla folla o, forse, soltanto perché una volta che sei vicino al cuore pulsante non ti resta che continuare a muoverti e smettere di pensare alla tranquillità che avvolgerà Torino nelle settimane successive che, tanto, lunedì arriverà comunque. Ci siamo immersi nei suoi eventi, mescolati ai battiti di Sbtrkt, Battiato, e dei tanti altri, persi nelle numerose locations, accorgendosi del fatto che sarebbe stato limitante raccontarlo sotto un unico filo conduttore o un’unica voce tutti i suoi riflessi. Ci siamo visti, riconosciuti e rispecchiati dall’inizio alla fine, raccogliendo sotto questo racconto a più voci la sesta edizione di quello che è stata la sesta edizione del C2C 2014, senza la certezza di ritrovarci nelle nostre parole perché forse, il segreto, è stato soltanto viverselo.
A cura di Francesco Pattacini, Ilaria Del Boca, Alice Diacono e Alessia Nacccarato.
Foto di Alessia Naccarato e Valentina Tonutti
Mercoledì 5 Novembre – How to dress Well @Ac Hotel / Chet Faker @Hiroshima Mon Amour
Parte tutto da un hotel di classe, in un giovedì piovoso, senza essere materiale per un romanzo belle époque, il Club to Club. E, forse, questo ambiente ci influenza un po’. Ci disorienta pensare di essere all’evento di un festival e non in un esclusivo meeting per iniziati della finanza o lobbisti a caccia di affari e quest’idea sembra condizionare anche l’ingresso di How to dress well sul palco. Perché il pubblico non si capisce e, come noi, cerca di appropriarsi del suo spazio e trasfigurarlo in un ambiente a lui più consono. Incerto Tom Krell si appropria del microfono e scherza con il pubblico, mentre i componenti della band scaldano i muri della stanza con i loro strumenti. Piano piano quel distacco iniziale si trasforma in complicità e la distanza fra ogni persona si riduce. È lì che davvero il concerto inizia e possiamo godercelo davvero. È un live leggero e profondo, che alterna una composizione quasi intimista, soprattutto in Suicide dream, a una più ritmata, Very Best Friend e What you wanted. La voce di Krell colpisce tutti, qualche occhio si chiude e si lascia immergere, e tutto passa più velocemente, e in poco tempo si chiude con un teatrale ritorno sul palco anche se, in realtà, non c’è nessun backstage. Le persone sembrano apprezzare l’esibizione, per quanto breve e intensa, ma, come si è già detto, non c’è tempo per pensare, l’evento successivo sta arrivando e noi siamo già in ritardo. Ci catapultiamo all’Hiroshima Mon Amour, ambiente più famigliare, per la musica e per il pubblico. Quando arriviamo c’è Wood Step che scalda quella manciata di persone già arrivate con mash up e remix fra il lounge e la trance. L’idea di godersi un live con spazio per respirare dura un pensiero perché, in poco tempo, la sala si riempie in attesa dell’arrivo di Chet Faker ed è qui che il c2c parte davvero. Trascinante, scontroso e provocatorio, un mix che, se non fosse per un talento quasi sconfinato, risulterebbe fastidioso ma, invece, serve a delineare una personalità che sul palco ci mette tutto. Ma c’è qualcosa di più e nulla appare scontato, non il modo in cui velocizza 1998 o No diggity, non la sua voce quasi soul né, tanto meno, quell’impennata di jazz quando decide di lanciarsi nella creazione di un pezzo inedito sul palco. È questa la musica elettronica che ci piace, senza compromessi o limiti, che non finisce di sperimentare e la gente che era con noi sembra essere stata d’accordo nel dargli il giusto calore. Ce n’è per tutti, e Chet Faker è davvero un buon modo di iniziare, e pensare che è solo giovedì e tutto deve ancora venire, beh, è qualcosa che ti fa stare bene. (fp)
Venerdì 7 novembre
Padiglione 1
Franco Battiato
Non è un caso che ad aprire il weekend dedicato alla quattordicesima edizione di questa rassegna internazionale di musica elettronica sia un italiano, e non uno qualsiasi, ma lo sperimentatore per eccellenza, quello che da decenni le gravita intorno. Non che avesse bisogno del Club to Club per essere sdoganato, ma certo averlo su questo palco fa sì che anche gli esterofili più ostinati si levino i paraocchi e per un momento guardino con orgoglio in patria. Parliamo ovviamente di Franco Battiato, a cui spetta l’oneroso compito di spezzare il ghiaccio e di scaldare i cuori dei primi spettatori ad aver varcato i cancelli del Lingotto in questa serata umida e nebbiosa, in linea con il tipico autunno torinese. Non sono ancora rintoccate le dieci, il Padiglione 1 è buio, rischiarato solo da luci fioche in fondo alla sala, ma Battiato è già ad attenderci con un completo di lino beige e le cuffie in testa, pronto per presentare il suo Joe Patti’s experimental group, il tanto discusso trentesimo album in studio uscito a settembre scorso. Tra la folla, i giovani e i non più giovani ascoltano in religioso silenzio le tracce del disco, nonostante non sempre le rifrazioni sonore di questa prova convincano fino in fondo, forse poco dirette, troppe eteree e vaporose anche per il maestro catanese che ci ha abituati sin dagli esordi ad un’impalpabilità extraterrestre. A mettere d’accordo tutti sono però i vecchi pezzi, tra i più conosciuti e amati anche dalle nuove generazioni, che si abbandonano alla graffiante tenerezza di E ti vengo a cercare e alla meravigliosa performance da brividi di No Time No Space che nessuno in quella sala avrebbe voluto che finisse mai. E quando ormai i giochi sembravano essere terminati e qualche occhio lucido cercava di non essere colto in flagrante dagli altri spettatori, Battiato sgattaiola dietro il sipario per tornare sul palco più veloce di quanto ci si potesse aspettare per eseguire la nazionalpopolare Voglio Vederti Danzare. I primi anni duemila hanno contagiato tutti nel bene e nel male, anche lo stesso Battiato che si lancia in una versione remix più simile a quella di Prezioso che all’originale, ma non c’è purista o schizzinoso che tenga, dopo un’ora di concerto non poteva che esserci miglior metaforica conclusione per cominciare ad oliare gli ingranaggi ed entrare totalmente nel vivo del Club to Club. (idb)
Jungle
A giudicare dal chiacchiericcio e dalla frenesia all’interno del padiglione, la voglia di vedere per la prima volta in territorio italico la band inglese era direttamente proporzionale alle aspettative nei confronti della loro esibizione, peccato solo si sia rimasti con l’amaro in bocca per la sua durata estremamente ridotta, nel corso della quale si giocano tutto su quattro pezzi che infiammano la platea e non deludono affatto con luna prestazione perfetta e di forte impatto. Penalizzati da un lunghissimo cambio palco, si è potuto godere anche della performance dei Ninos du Brasil, prevista in scaletta in contemporanea ai nostri che, pur restando sostanzialmente statici sul palco, riescono comunque a trasmettere empaticamente tutta l’energia dell’omonimo disco d’esordio. Promossi con riserva, sperando di ritrovarli presto su un palco, oltre a quello di Milano nei prossimi giorni. (an)
Caribou
All’una, quando il Padiglione 1 di Lingotto Fiere è ormai decisamente gremito, sale la frenesia tra il pubblico che si affolla in prossimità del main stage. Il sipario si apre metaforicamente sotto un cielo viola-azzurro per lo show più atteso della serata di venerdì, quello di un altro artista canadese, Daniel Snaith, in arte Caribou. Gli occhi puntati sul palco, mentre l’allestimento si protrae per una ventina di minuti, a seguito della breve e misteriosa apparizione dei Jungle che interrompono sul più bello il loro show. Il tempo sembra essersi fermato e il silenzio aver contagiato tutti gli spettatori. E all’improvviso una detonazione di colori, suoni e movimenti, una girandola di emozioni. L’omettino completamente vestito di bianco e con un principio di calvizie, lassù a pochi metri da noi stipati contro le transenne, dopo solo qualche minuto dall’inizio dell’esibizione ha già lasciato tutti a bocca aperta, tra lo sperimentalismo elettronico di Silver e i clarinetti magici di Mars. I colori dominano la scena, risvegliando quel godimento visivo che si era assopito, merito di un tecnico delle luci che qualsiasi musicista si contenderebbe. Lo spettacolo è curato nei minimi dettagli, grazie anche ad un audio impeccabile – cosa che non si potrà dire poi della serata di sabato – particolarmente nel momento in cui Dan Snaith insieme al batterista Brad Weber, durante l’esecuzione di All I Ever Need, scatenano una bufera tribale, dimostrando entrambi di possedere doti percussionistiche fuori dal comune. Le luci intanto cambiano ancora una volta e sale sul palco Jessy Lanza, direttamente planata dalla Sala Rossa sempre fasciata nella sua vestaglietta svolazzante, proprio per duettare insieme all’amico e connazionale la loro Second Chance, che regala un momento di antigravità. Ma Caribou è scaltro, e non annoia mai il pubblico, continuando a stupire, attorniandosi di musicisti poliedrici, come dimostra anche un bassista particolarmente intonato. Senza esclusione di colpi, il cielo torna ad illuminarsi, scoppiando di fluorescenza per poi dipingersi di verde tra fari di luce bianca, mentre senza neanche accorgersene, si è arrivati alla conclusione, con la triade incendiaria Odessa, Our Love, Can’t Do Without You e la never-ending Sun che in un’estensione senza limiti lascia tutti avvolti tra sorrisi ed incanto. In una parola, sbalorditivo. (Idb)
Red Bull Music Academy
Jessy Lanza
Entrando nella Sala Rossa – meglio conosciuta come Red Sauna per il suo microclima torrido, ma rilassante – tra gli sguardi spersi ed incantati del pubblico fluttuante, avreste potuto rimanere folgorati da un altro tipo d’ondeggiare, quello della bionda chioma dell’artista canadese Jessy Lanza, che coi suoi movimenti aggraziati e lenti pare un upupa dal piumaggio sgargiante, mentre alzandosi ed abbassandosi sopra i sintetizzatori è avvolta in un kimono variopinto. La voce ansimante e le sonorità anni ’80 sono i suoi tratti distintivi: in molti sono già radunati sotto le transenne, ma ragazze e ragazzi continuano per tutta la durata del concerto ad entrare, attirati anche semplicemente per curiosità, rimanendo stregati fino all’ultima nota. Considerata una delle best new artists del 2013 con il suo album di debutto, Pull My Hair Back, Jessy Lanza è perfettamente adatta per il palco della Red Bull Music Academy. L’atmosfera è intima come in un basement, ma l’energia che evapora dai corpi in movimento è vibrante, soprattutto in pezzi come Kathy Lee e Keep Moving. La potenza delle casse sembra quasi far sanguinare le orecchie, ma Jessy è una sirena dotata di microfono e tastiere, avvalendosi di questi strumenti per richiamare intorno a sé un sempre più nutrito pubblico che rimane impietrito di fronte alla compostezza e alla bravura di un’artista che fino a pochi anni fa non sarebbe stata neanche inserita nel programma di un festival come il Club to Club. I tempi fortunatamente cambiano, così come i generi, sempre più ibridi. (idb)
Ninos du Brasil
Superata la fila per accedere alla Sala Rossa, ad un certo punto della serata, intorno a mezzanotte, vi sareste trovati all’improvviso nel bel mezzo di un rito sciamanico. Non erano solo il fumo onnipresente, il sudore delle persone accalcate o le percezioni alterate a rendere l’atmosfera simile ad un sabba, quanto soprattutto le due presenze che si dimenavano sul palco con tanto di parrucche di paillettes argentate, di Nico Vascellari e Nicolo Fortuni. E che si trattasse di due ex punkettoni era subito chiaro da come picchiavano cattivi sulle percussioni disseminate su tutto il palco. Le bacchette, perennemente in mano, pronte a colpire qualsiasi cosa, saltellando da un rullante all’altro che era più un pogo incessante, causa e effetto di un’energia dionisiaca che si rovesciava copiosa sul pubblico colto da un tribale e totalmente indisciplinato impulso a scatenarsi. Perché questo è l’effetto che fa il mix assurdo e micidiale di samba, electro-punk e minimal (”electro-batugada” si definiscono loro), che i due ex appartenenti alla scena punk hard-core anni ’90 (vedi alla voce With Love, attivi sulla scena italiana dal 1995 al 2006) suonano nei loro concerti che sono più dei riti di purificazione al contrario, dove il flusso di suoni è capace di attraversarti e contaminarti con una potenza inaudita, trascinandoti come in un vortice spazio-temporale, dalle foreste più selvagge e primordiali fino a suoni minimalisti e sospesi da astronave futuristica. E poi tamburi scanditi e silenzio. E poi di nuovo a darci giù pesanti con del sintetizzatore esoterico. Vortice spazio-temporale che non può che portarci a pensare a Odissea 2001 nello spazio, come crediamo ci abbia pensato anche il visionario Nico Vascellari, considerato uno degli artisti visivi più validi in circolazione, che anche nelle sue opere visive riesce a mischiare elementi viscerali (per nulla casuale quindi, la sua collaborazione di questi giorni con Marina Abramović che aprirà con lui la nuova mostra a Roma, nell’Aula Bunker del Foro Italico) “bestialità, comportamento animale e scambio di energia”, come da lui stesso dichiarato. Sta di fatto che quella sera, dai rullanti che rullavano insieme ai sonagli e le maracas dello spirito carnevalesco di Tuppelo , ai tamburi più cupi e mesmerizzanti di Novos Misterios, alle più tribal techno Essenghelo Tropical e Sombra da Lua, il rito orgiastico è stato celebrato col repertorio completo senza soluzione di continuità. Se è vero quindi, come sappiamo, che ogni manifestazione di gusto è un atto più o meno dissimulato di violenza, possiamo affermare per certo che quel concerto in quella sala rossa, è stato un atto violentissimo. Violentissimo e splendido. Un casino insomma. (ad)
Sabato 7 novembre
Padiglione 1
Future Brown w/t Prince Rapid
Tra le tante anteprime portate dal C2C rientrava anche il mash-up dei Future Brown e Prince Rapid, in cui la musica elettronica si mescolava insieme alle rapide parole di un hip hop londinese e profondo. Che fosse la prima volta in Italia lo si visto più nella reazione del pubblico che da un live trascinante e interessante, nelle modalità in cui la band riesce a mescolare le diverse esperienze dei suoi componenti, dai beat più trance a quelli dell’old school. Pagando, in questo senso, una novità che nel nostro paese ancora non ha trovato una affermazione. È infatti la parte finale, quando Prince Rapid, microfono in mano, a trascinare la folla alla fine di World’s Mine in un coro. Scene difficilmente rintracciabili in un clima abituato ad ascoltarsi da solo la musica elettronica e a ballarla. Pieno di potenzialità, questo mash-up, risulta interessante e quanto mai complicato, soprattutto se scelto come introduzione a SBTRKT. (fp)
SBTRKT
Uno degli artisti più attesi della XIV edizione di Club to Club era senza ombra di dubbio SBTRKT. In programma per sabato 9 novembre, sale sul main stage subito dopo Clark e Future Brown esibendosi in un live trascinante ma meglio godibile dal fondo dell’enorme padiglione, acusticamente poco consono ad ospitare un evento sonoro e timbrico di questa portata. Il producer mascherato riesce in una performance – sebbene non all’altezza dell’album – ottima, forse frutto delle aspettative dopo l’ascolto dell’ultimo, eclettico Wonder where we land. Verso la fine della setlist ci regala uno splendido remix di Lotus flower dei Radiohead, decisamente degna di nota e meritevole. Mai più senza. (an)
Apparat
Le celebrazioni per i 25 anni della caduta del Muro sono inaugurati da Apparat. Torino come Berlino, con uno dei suoi guru a fare da gran cerimoniere. Quando viene installata la consolle qualcuno rimane deluso, non tanto dal genere di musica di qualità che ne sarebbe certamente uscita, quanto perché tutti speravano in un live set microfono alla mano. Quello che esce è, in ogni caso, di un livello altissimo, come se qualcuno avesse potuto avere dei dubbi, e tutti si lasciano trascinare. La calca è asfissiante, e si muove a ritmo dei bassi di Sascha Ring similmente ai colpi che venivano dati sulla linea gotica per riunire quella parte lacerata d’Europa. Senza martelli alla mano, il sudore continuava a scavare la nostra lotta per l’emancipazione, i passi fendeva colpi finali a chi era lì da ore senza fermarsi. Impossibile distinguere una traccia dall’altra, più perché immersi che per un vizio di forma, Ring ha reso giustizia a una parte della sua storia e del suo nome, creando una complicità profondamente diversa da quella che nasce quando si unisce dai Modeselektor. E, tutti, in estrema adorazione a seguirlo. (fp)
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