In un tranquillo martedì di fine febbraio si varca la soglia dell’Atlantico di Roma senza ben sapere a cosa si va incontro. Che ad esibirsi sia Anders Trentemøller è cosa certa, quello che risulta meno scontato, però, è che tipo di esibizione ci regalerà il genietto danese. Lui che, flirtando con le macchine, è riuscito a tirare fuori la parte umana dell’elettronica minimale usandola, in origine, come componente a se stante per poi lasciarla approdare ad una forma canzone più convenzionale, ma non per questo meno affascinante.
Il palco spoglio mostra una serie di strumenti tradizionali (dalle batterie alle tastiere) a circondare l’altare di elettroniche che inizialmente ospita un tiepido open-act di T.O.M. and his Computer, che non fa altro che mettere appetito e curiosità. Alle 22 in punto lo stage viene apparecchiato e si capisce subito che quella che Anders vuole regalarci è una live performance di tutto rispetto, che vede l’ausilio di una vera e propria band a sostegno delle sue strutture elettroniche. E’ dunque evidente che a farla da padrone nella scaletta saranno i brani dell’ultima fatica Lost, in cui il nostro si confronta con le voci di una serie di artisti della scena indipendente internazionale (dai Low a Kazu Makino). Le luci soffuse e nebbiose (saranno così per tutta la prima pare dell’esibizione) esaltano la minacciosa introduzione di basso di Still On Fire che inaugura le danze. A giudicare dalla concentrazione di Jaguar e Jazzmaster presenti sul palco, sembra di essere a un concerto post-punk o shoegaze, e le chitarre si sentono eccome, nel tripudio psichedelico di una ripescata Past the Beginning of the End, che incanta e stordisce facendoti sentire un po’ come un serpente.
Una voce per tutte le voci di Lost è quella di Marie Fisker, che esordisce con la “sua” Candy Tongue, dapprima relegata al suo angolo, percorrerà poi svariati metri, dando spettacolo con la sua voce acuta e ovattata. Anders, diciamoci la verità, se la tira un po’, anche se condivide la scena con i suoi musicisti, non lasciandoli affatto nell’ombra, anzi. Appare concentratissimo mentre armeggia sui tasti della tastiera e le sue macchine mentre il palco si fa un trionfo di colori con la martellante River Of Life ed è difficile resistere alla tentazione di alzare la mano al cielo come solo i clubber più truzzi sanno fare. Un po’ di elettronica pura viene regalata da Vamp e Miss You suonate una dietro l’altra. Sarà l’unica volta in cui gli occhi di tutti saranno per il deejay danese, visto che i musicisti si sposteranno per poco nelle retrovie, dando spazio all’anima più scarna della sua musica, quella che sa estasiare anche con le note di uno xilofono suonato nella delicata suspense di una ninnananna, che sul finale si trasforma in un brano noise di tutto rispetto.
Ma i momenti epici non sono mica finiti, c’è ancora Trails in cui trova spazio un delizioso balletto kraftwerkiano offerto dalle gentili donzelle sul palco che, per l’occasione, indossano dei guanti bianchi, c’è la bellissima Never Stop Running, cantata egregiamente dalla Fisker e c’è Costantinople che ricorderò per sempre come il brano su cui un tizio si avvicina e mi chiede “Ascolta, ma a te non sembrano i Doors?? Pensaci bene…” e con le mani fa come per indicarmi le evoluzioni sulla tastiera che costituiscono la base del pezzo, poi c’è Moan che fa ballare pure i morti e infine i bis su cui padroneggia un’intensa versione di Gravity, che non puoi mai smettere di cantare.
In definitiva, Trentemøller realizza un concerto ben equilibrato, dove i brani in scaletta sono assi più ricchi delle rispettive versioni studio e la musica padroneggia in tutte le sue forme. Gli assoli di tastiera e di chitarra fondono i generi, la batteria martella come non mai e le distanze si abbattono sempre di più, in un live che mette d’accordo i clubbers duri e puri e gli amanti dell’electro, surclassando ogni tipo di certezza. Non importa se a parlare siano le macchine o gli strumenti veri, quello che davvero conta è che lo facciano con emozione, alla faccia di chi dice che l’elettronica non è musica suonata. Chapeau.
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(Foto di Caterina Basile e Eugenio Maddalena)