Obama ha ultimamente dichiarato che Jamie Dimon, il ceo della JPMorgan Chase che in un giorno ha bruciato circa due miliardi di dollari, è “uno dei migliori banchieri che abbiamo” (qui trovate l’articolo in inglese a proposito di questo). Detta così viene da pensare che tutti i banchieri statunitensi non siano nient’altro che una corazzata in giacca e cravatta che ogni giorno si ammazza di lavoro per affondare l’economia. Non credo sia così e non credo neanche (mio parere) che Dimon sia uno dei migliori banchieri USA. La legittimazione di questa frase arriva dalla crisi immobiliare dei mutui subprime che ha colpito il mondo nel 2009 e che ha fatto fallire banche su banche (l’esempio più eclatante è la Lehman Brothers): stranamente la JPMorgan ha resistito e Dimon è stato eletto genio, ma voglio ricordare che gli strumenti finanziari come i mutui (esempio un po’ generico, ma adatto in questa sede) hanno una quota di rischio (di insolvenza); ora, se il rischio rimane in potenza e non si traduce in atto, l’azionista ha vinto una scommessa. Dimon ne ha vinta una bella grossa. Ma sempre di una scommessa si tratta.
Tutto questo è per dire che JD non è un genio e che la frase di Obama probabilmente deriva dai soldi che la JPMorgan ha, sempre probabilmente, messo a disposizione della campagna elettorale del Partito Democratico e che quest’ultimo gli debba la sua riconoscenza (il tutto in linea teorica dato che non posso controllare il bilancio del partito democratico degli Stati Uniti, forse nessuno può). Quello che voglio dire io con questo esempio è che dove esistono finanziamenti privati esistono anche interessi privati. Federico Rampini ha scritto in proposito, nella prefazione al libro di Posner “Un fallimento del Capitalismo”, «grazie alla possibilità di erogare finanziamenti (ovviamente privati, ndr) pressoché illimitati alle campagne elettorali, sono i potenti di Wall Street a condizionare il Presidente ed il congresso. E non solo quando è la destra a vincere: da Clinton a Obama, nessun democratico è stato in grado di resistere al potere di pressione delle lobby del denaro».[1] Naturalmente nella destra repubblicana il verbo di Wall Street è ancora più sacro.
Quindi si gioca ad una partita a senso unico nel momento in cui non è importante chi vinca le elezioni, dato che tutte le coalizioni perseguiranno politiche imposte dai finanziatori [l’eterna immutabilità delle legislazioni market-friendly è il male del mondo ai miei occhi].
Questo è quello che accade negli USA dove i finanziamenti privati ai partiti imperano tranquillamente, senza se e senza ma. Da noi la situazione è leggermente diversa anche se la raccolta dei fondi esiste ed è una realtà per ora piccola. Nel 2010 ad esempio il PDL ha ricevuto finanziamenti da parte di imprenditori attivi soprattutto nell’edilizia e il PD da alcuni membri del parlamento stesso (la fonte è questa). Nel momento in cui si tolgono i rimborsi elettorali (che altro non sono che finanziamenti pubblici ai partiti) restano solo queste forme di donazioni private e si crea (probabilmente è già così, ma lo sarebbe enormemente di più) esattamente la logica del “market friendly” illustrata sopra.
In un mondo in cui le politiche finanziarie sono la causa principale della crisi economica (vedi Dimon o la Lehman), e non certo i disoccupati o chi chiede qualche assegno di previdenza sociale, far pendere l’ago della bilancia della decisione unicamente verso i privati, a mio avviso, può essere davvero pericoloso. Di parere completamente contrario al mio è Beppe Grillo e dei suoi grillini esplosi nelle ultime elezioni (c’è una pagina del suo forum che parla proprio di questo).
L’attuale sistema dei rimborsi ai partiti si basano sulla logica proporzionale del “5 euro a voto” (qui), ma se abolissimo completamente i finanziamenti privati (invece di quelli pubblici) e lanciassimo il finanziamento pubblico in egual misura a tutti i partiti, non si ridurrebbe l’”effetto marketing” (chi ha più soldi per la pubblicità elettorale vince)? Non sarebbe più equo e corretto nei confronti degli elettori? Non abbiamo tutti l’impressione che il voto non si basi sui programmi elettorali ma su “questa” o “quella” faccia? A nessuno viene in mente di risolvere questo personalismo anti-politico? Magari così ci si riesce, o quanto meno si può iniziare un cammino.
P.S.: Dio maledica per l’eternità il marketing
[1] Federico Rampini in Richard Posner, “Un fallimento del capitalismo”, Codice Edizioni, Torino, 2011, pag. XI