Quando entriamo nella dimensione creata dai Silver Mount Zion l’estasi è un misto di dolore e piacere uditivo e successivamente esistenziale. Diciamo che per sentirsi a posto con se stessi bisogna ascoltare, fare, essere un album così; al suo interno si trovano mescolate le più varie eredità, dal blues al noise, al post-rock e post-hardcore, al gospel, caratteristico dello stile dei SMZ, ma niente lo rende citazionistico, tanto che mi è difficile azzardare paragoni.
Musica fatta col sangue, le lacrime e la gioia suprema della caduta, col suono dei ghiacciai che si sciolgono. E’, come nella tradizione del gruppo, un disco politico, che si preoccupa dell’attuale situazione e la interiorizza come tutti noi abbiamo fatto con la crisi economica, ma che mantiene, a dispetto dei tanti contemporanei, la sicurezza del classico, senza mai cadere nell’eccesso sfrenato che può spesso risultare vuoto, rischio stilistico principale di tutte le epoche “barocche”.
Archi in stile Arcade Fire cedono il passo senza continuità a feedback chitarristici à-là Sonic Youth, la World Music dei Goat, mezza vichinga mezza africana, si mescola con l’etica dura e pura dei Godspeed You! Black Emperor, ovvia referenza dato che Efrim Menuck, leader dei Mount Zion, è anche il chitarrista dei GY!BE.
Il disco si apre con la dolce voce di una bambina che ci sta parlando dell’isola di Montréal, e del perché fanno un sacco di rumore: “because we love each other”. Mi piace pensare che sia la stessa bambina della cover del disco, il volto che emana un fascio di luce rivoluzionaria, quella luce gettata ovunque che si configura come strumento di distruzione (fuck off) e di liberazione (get free); seguono dieci minuti di prosodia metal, di cori come anticorpi terrificanti volti alla purificazione del cuore, di orde marcianti di basso e batteria.
Usciti dalla doccia igienica, ci si può calmare, per modo di dire, si può ascoltare l’Austerity Blues, impregnato di folk e atmosfere world, delizia infinita, una gran ballata che ha il grande pregio di rallentare i tempi senza per questo allentare la tensione, per poi lasciare spazio alla furia punk di Take Away These Early Graves Blues. Con la forza di un coro da stadio, si sviluppa la resistenza umana.
Non sono d’accordo con chi definisce “disumanizzato” ed estraniato questo disco, anzi penso che sia il grido continuo delle storie degli uomini, come confermano le voci – dopo la bambina, ci sarà una ragazza, poi un uomo dalla voce grossa, tradotto in francese – che non fanno altro che raccontare spezzoni della loro vita quotidiana, delle loro decisioni, dei loro dubbi, tradotti e sintetizzati nel crescendo dell’album, in particolare nella terza traccia.
Un breve intermezzo di sensibile canto corale, Little Ones Run, ci riporta sulla terra dei deboli, dei piccoli esseri che scappano di fronte alla fine del mondo. E la fine del mondo arriva. Le colonne sonore dei palazzi del millenario impero cinese crollano e cadono e si fondono dentro le onde del rosso mare in tempesta della lava vulcanica. Gli archi creano enormi cattedrali, sono architetti, gli archi, le chitarre sono distruttori; il mondo sta morendo. What We Loved Was Not Enough, forse la mia preferita del disco, esprime tutta la disperazione necessaria a concludere in bellezza questo viaggio all’interno dello spettro del tempo, è una nota lirica, tinge il tutto di una nota passionale. Segue Rains Thru The Roof At The Grande Ballroom, che ha tutto l’aspetto di una tribale conclusione del sabba. Si aprono gli occhi, e la trance mistica è finita. Vi consiglio di andarli a vedere live: sarà senz’altro un’esperienza catartica.