Per le recensioni mi riservo sempre più o meno lo stesso attacco, una cosa del tipo: “ritornano gli nome-di-band con nome-di-album-nuovo, dopo numero-anni di silenzio da nome-di-album-vecchio”. Classica preparazione da articolo-Lego, da scrivere assemblando i pezzi, ed ecco che i Wave Pictures mandano in tilt il mio sclerotico sistema. Perché – parliamoci chiaro – non puoi parlare di ritorno di una band che non è mai sparita. Per il trio del Leicestershire, City Forgiveness (2013) è il dodicesimo album in quindici anni di carriera ed il terzo negli ultimi tre anni, anticipato da Long Black Cars (2012) e Beer in the Breakers (2011): inutile dire che la band capitanata da David Tattersall realizza dischi a ritmi che ricordano gli allevamenti intensivi di polli in batteria, e qui mi evito una battuta veramente squallida.
E come se non bastasse un semplice full lenght, questa volta si decide di strafare: con la tracotanza di chi – chitarrista ventenne tedesco – si prese due pasticche di viagra per sbalordire con l’eccesso delle sue prestazioni, i Waves pensano bene di farlo doppio, questo City Forgiveness.
Mah.
Di certo, non sarà necessario un dodicesimo disco per capire che la ricetta base dei Wave Pictures è sempre la stessa: chitarre crunch con giri d’accordi in pieno stile brit pop, incerti assolini di vaga ego dohertiana, sovraincisioni praticamente assenti & pochissimo lavoro di mix. Un classico. Brani come Before this day, Missoula e Whisky Bay ricadono perfettamente in questo schema: nessuna sopresa, ma grande godibilità. Certo è sempre solita, vecchia minestra, ma il talento artigianale da parte dei tre inglesi nella costante rielaborazione di variazioni sul tema stupisce; impossibile non tenere il tempo col piede, magari anche sculettare, sebbene mi renda conto che tante altre persone sarebbero disposte a dire lo stesso di un album random degli AC/DC. All my friends e Chesnut impongono una virata verso sonorità più blueseggianti, ma sostituire un archetipo preciso con un altro altrettanto preciso non è esattamente la strategia migliore per turbare le acque, sempre ammesso che questo sia lo scopo. Unica perla della prima parte del doppio disco si rivela The Woods, un’autentica hit che ricorda i Talking Heads di David Byrne con il suo ritmo incalzante, le chitarre in levare e quella voce a metà tra il canto e lo spoken, offrendoci una sorta di slam poem tutto da godere.
Nonostante una prima parte che non stupisce per nulla e ammalia ben poco, City Forgiveness dimostra di avere comunque qualche carta da giocare nel secondo disco che lo compone.
The Inattentive Reader, col suo accattivante riff e le pennate dalla ritmica trascinante, ci riportano gradevolmente ai tempi (e ai suoni) dei Kinks, mentre The shell esplode in un ritmo scatenato: da notare il lungo assolo di batteria nella piena tradizione di Keith Moon e un curioso assolo di sassofono soprano, una ventata d’aria fresca per le sonorità dell’album. The Narrow Lane riprende l’idea e le sonorità folli di The Shell, con forsennati colpi di spatole sul rullante; ma alla novità si mescola il solito assolo disordinato e praticamene in clean che ormai è un po’ il marchio di fabbrica dei Wave.
Atlanta, una ballata tex-mex con tastiere e chitarre che sembrano uscite dal bar di From Dusk to Dawn, regala un’altra virata ad un secondo disco che si rivela smuovere le atmosfere del primo più del previsto.
Due cose si possono dire dei Wave Pictures: prima di tutto sono bravissimi a declinare la solita ricetta di tre accordi, chitarra basso batteria, con sfumature infinite e diverse rimanendo essenzialmente se stessi: come la seconda parte di City Forgiveness dimostra benissimo, si può spaziare dal pop inglese al blues, da sonorità africane a echi di spagnoleggianti flamenco rimanendo facilmente riconoscibili. E proprio questo è il nodo della questione: il secondo punto fermo della band è la sua imbarazzante prolificità perpetuamente simile a se stessa. Per dirla in altri termini, si è troppo riconoscibili perché ci si ripresenta, nonostante le infinite variazioni di tema, sempre con la solita formula, e troppo di frequente.
Il disco funziona? Sì, funziona molto bene: Tattersall & soci sono sempre in grado di scrivere brani semplici ed efficaci pur nella loro magrezza, sia compositiva sia esecutiva. Ascoltando City Forgiveness non potrete trattenervi dal sorridere canticchiando le canzoni mentre tenete il tempo sul volante, e questo sarebbe sufficiente per giudicarlo positivamente, visto che non sono per forza lunghi assoli di tapping né complesse architetture armoniche a garantire il successo di un album. Se suona, suona.
Ma alla luce della spropositata – e scarsamente varia, specialmente negli ultimi tempi – produzione della band, non posso che essere scettico: a volte, a decidere le sorti di un disco, sono gli album che lo precedono, il percorso che i musicisti hanno intrapreso per arrivare a quel punto. E se non c’è ricerca, se non c’è volontà di nuova espressione, la musica rischia di scadere nella confortevole ripetizione di sé, nell’auto-plagio, nell’impossibilità di vedere al di là di quello che si sta producendo hic et nunc.
Per questo City Forgiveness mi lascia un sentore agrodolce: qualcuno dei suoi brani, perso nelle playlist di qualche venerdì sera, probabilmente vi farà ballare e vi divertirà. Probabilmente sarà molto migliore di tanti altri brani, perché questi tre le canzoni le sanno scrivere eccome. Ma considerato nel contesto della discografia dei Waves Pictures, ecco che il disco si ridimensiona, un ennesimo capitolo aggiunto di fretta e senza svolte, che si perde negli indici e negli elenchi dei collezionisti di dischi.