C’è un momento particolare quando il sole tramonta e scompare: per qualche minuto il cielo resiste e rimane azzurrino e verde per un po’ di tempo. Ecco, era così quando Matt Berninger e compagni hanno messo piede sul palco dell’Auditorium Parco Della Musica di Roma, trascinati dal boato di un pubblico che era già entusiasta ancor prima dell’inizio.
I primi due pezzi di apertura sono stati una dichiarazione di intenti con il pubblico: “Wasp Nest” e “All Dolled-Up in Straps” sono due brani intimisti del 2004 racchiusi nell’EP “Cherry Tree” ma scritti molto tempo prima, acustici, confdenziali, eseguiti con ferma religiosità e dedizione come se i National avessero cercato di dirci “tranquilli, è una serata tra noi, siamo a casa nostra e vi facciamo vedere un pezzo di quello che siamo davvero”. Così è stato.
Dopo l’inizio particolarmente lento e introspettivo (comprendente una toccante “Fireproof”), il gruppo si è lanciato in quelli che sono pezzi più roboanti, più attesi e più cantati con energia da tutti gli angoli dell’Auditorium: giusto per citarne un paio, “Don’t Swallow the Cap” e “I Should Live in Salt” sono stati accompagnati da un pubblico che non riusciva a stare fermo e seduto, ondeggiante, scalciante, completamente vinto dalle emozioni. Esattamente come il frontman quando ha cominciato seriamente a bere poco più tardi.
Matt Berninger non riusciva proprio a tenersi: lanciava verso il pubblico bicchieri di plastica pieni di quello che da lontano sembrava champagne (senza far male a nessuno); camminava avanti e indietro con freneticità sul palco; cantando si piegava e si contorceva cercando il contatto con la platea e con il suolo del palco; durante l’esecuzione di “Graceless” (perfetta) è rimasto per molto tempo accasciato tra la sua bottiglia e la gran cassa della batteria, continuando a graffiare le liriche con la sua voce che a tratti sembrava consumata da quello stato in cui si era ritrovato.
Il punto è che tutta questa teatralità, sicuramente una scelta scenica e ragionata della performace, non guastava nulla: tutta questa sofferenza simulata si sposava benissimo con quelli che erano i testi di “I Need My Girl”, “Pink Rabbit” e “Afraid of Everyone”. Il culmine di questo piacevole istrionismo è stato nel momento in cui Berninger si è lanciato nel pubblico, camminando tra la gente e cantando insieme alla platea, in un vortice di abbracci, strattoni, urli, canti e sofferenza/gioia collettiva. Se dovessi descrivere tutto lo show in cinque parole userei queste: “il rapporto con il pubblico”.
Tutto il dolore messo in piedi dallo spettacolo di Matt è svanito proprio nella consueta pausa prima dei pezzi finali. Una arrabbiata e appassionata “Mr. November”, dedicata ad Obama, ha fatto spazio ad un’ispiratissima “Terrible Love”. Infine Matt ha buttato il microfono e, sorridendo di gioia e soddisfazione, ha deciso di far cantare al pubblico “Vanderlyle Crybaby Geeks”: un auditorium in festa, emozionato e partecipe ha regalato ai National un coro da brividi con invasione di palco annessa (qui sotto il video dalla pagina di Dude).
Chi non è venuto paga il pegno di essersi perso uno dei migliori live della stagione concertistica italiana, nonché uno show costruito con un ritmo studiatissimo, tra vari climax e momenti intimisti.
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Foto a cura di Astrid Nausicaa Maragò: