La formazione NewYorkese è giunta al quarto disco, terzo consecutivo sotto Sacred Bones, il terzo disco in 3 anni. Se la band ha mantenuto una dura attitudine punk, noise e psichedelica fino a Leave Home, con Open Your Heart c’è stato un reinventarsi interpreti di un vastissimo sentire rock che spazia dagli irriducibili stilemi punk e psych, passando per il garage più sporco, fino alla classicità americana, ai flirt col country e con la musica popolare statunitense, quella ben lontana dalla East Coast.
Un ripiego sulla semplicità, sul rassicurante, che a molti ha fatto storcere il naso, ma che sembra divertire la band, che già nel disomogeneo, ma a suo modo brillante, Open Your Heart si diverte a vestire diversi panni, ora simil-shoegazers, ora rockers dal cuore ferito, non abbandonando, ma mettendo a riposo la pericolosità noise di matrice Albini-ana, il garage punk più sguaiato, le acidità da “MC5 incontra gli 80s più psichedelici”.
In New Moon questo ammorbidimento delle lame in favore di una composizione più semplice e di uno stile più ClassicRock-oriented, si ripropone ancor più compiuto. L’introduzione di parti per pianoforte o organetto o, ancora, di armonica d’accompagnamento costruiscono un’atmosfera country/rock più palese e definita che, salvo ritorni e furie punk che fanno capolino ogni tanto (The Brass, Electric, Supermoon), sembra farla da padrona sin dalla spiazzante opening track, tutta acustica, organo e coretti, lungo tutta la prima metà del disco, in cui si afferma la nuova virata estetica, per lasciare posto, nella seconda metà, a qualche ripensamento talvolta un po’ impacciato e ad idee sviluppate non altrettanto efficacemente o che iniziano semplicemente a ripetersi e perdere brillantezza.
Se il lavoro dello scorso anno poteva sembrare una compilation di punk/indie-rock americano anni 80 messa insieme da uno studente con la maglia degli Husker Du, New Moon ha più il sapore di incursione nella poetica di una vecchia passione nascosta per gli eroi dell’Americana. Vedi Tom Petty più che Springsteen, ma quello di cui parliamo è una chitarra acustica abbinata all’elettrica, spesso a mescolarsi all’armonica, gente che beve, gente High&Lonesome, piena d’amore o voglia di cambiamento/avventura, eruzioni rock più dure alternate alla solita looseness che contraddistingue da sempre l’esecuzione dei The Men, casuale e umorale, a volte pigra a volte più frenetica, ma in questo disco spesso lontana dall’essere impeccabile.
Quando non impegnate in cori o singalongs, le voci dei tre cantanti si alternano, come anche le varie personalità della band, che anche stavolta non riesce, non provandoci neanche più di tanto, a far affiorare qualsivoglia filo conduttore o spirito comune che leghi insieme la raccolta di pezzi, facendo pensare che forse Leave Home rimane il lavoro certo meno accessibile, più caotico, non melodicamente valido quanto i successivi, ma paradossalmente più ambizioso e identitario.
Un altro lavoro camaleontico, divertente, a suo modo maturo, ma non certo un disco di autoaffermazione, di autocoscienza, che forse per una band con il talento e la personalità dei The Men era il tempo di fare. Un album godibile, personalmente non più di Open Your Heart, con diversi pezzi validi o memorabili, un’estetica ben assemblata, ma che rappresenta, se non un passo indietro, quantomeno un adagiarsi lungo mete già conquistate, strade già battute, neanche fotografate sotto nuova luce.
Sacred Bones, 2013