Tra i festival inglesi a cui abbiamo dedicato uno speciale qualche settimana fa, quello che mi attirava di più era, ovviamente, quello dal nome più originale: the Green Man Festival. Che razza di nome è Green Man? La prima volta che l’ho sentito pronunciare ero in un autobus diretto a Birmingham, nelle prime settimane che ero arrivato a Bristol, in autunno, da una ragazza gallese che sedeva a fianco a me, molto dolce, simpatica, e praticamente impossibile da tenere zitta per dieci secondi consecutivi. Ci ho messo un po’, in effetti, a capire che parlava di un festival e non di ometti alieni sbarcati chissà dove – visto anche il personaggio. Così ho continuato a rimuginare sul nome per mesi, man mano che è cominciato a diventare sempre più ricorrente, sia tra amici e conoscenti, sia negli ambienti musicali bristolesi. Okay, Glastonbury, che è più un villaggio pop-up che un festival, ormai lo conosciamo, e Reading e Leeds, piuttosto famosi pure loro da queste parti, e tendenzialmente etichettati come mainstream dai più. Passino pure Latitude, l’unico della lista dei grossi festival che non prende il nome dal posto che lo ospita, ma a cui almeno hanno dato un nome importante, e End of the Road, che fa tanto Corman McCarthy. Ma per chiamare un festival Green Man, gli organizzatori dovevano essere parecchio fuori di testa. Si, bisognava per forza andarci: tanto più che, geograficamente, è anche il festival più vicino alla nostra solita sede, e dove si è concentrato il più alto numero di bristolesi ad un festival estivo. Così anche stavolta la nostra rubrica si ruba il paginone centrale, e attraversando il ponte sul canale, vi racconta quello che succede nella nazione a fianco alla più ribelle delle città inglesi, a meno di un paio d’ore di auto, ma sospesa in tutt’altra dimensione temporale: il Galles.
Un po’ di informazioni spazio-temporali, innanzitutto. Il Green Man Festival 2014 si è svolto la scorsa settimana, 14-17 agosto, nel Glanusk Park, al centro del parco Nazionale dei Brecon Beacons, poco lontano dalle Black Mountains. Nonostante i dodici anni di tradizione, il festival è riuscito a crescere, un pezzo alla volta, senza perdere lo spirito proud e independent – come recita lo slogan di una nota catena di caffee bristolese – che lo caratterizza da sempre, continuando a essere sostanzialmente il prodotto di una cerchia di amici e parenti che si concentrano intorno a Fiona Stewart, ideatrice del tutto. Non ci sono sponsors di nessun tipo al Green Man, nessun cartellone pubblicitario, nessuno striscione, nessuno che distribuisce aggratis bibite gassate e zuccherose né tantomeno dolciumi. Se siete fortunati, però, potete riuscire a farvi passare qualche bustina di erba o scroccare un drink sedendovi a fianco di qualcuno che è troppo ubriaco da capire che non fate parte della sua comitiva, e vi confesso che quest’ultima mi è successa più volte. Nonostante gli anni, il festival ha mantenuto anche la sua forte identità gallese, che è anzi diventato uno dei suoi fattori identitari: a partire dal dizionarietto di frasi comuni nella lingua locale distribuito insieme alla guida, all’ingresso, e a tutte le indicazioni intorno presenti nelle due lingue. Ma probabilmente le due caratteristiche per cui il Green Man è rinomato sono quella, in cui ha fatto scuola, di proporsi come un’esperienza che si allarga ben oltre la componente musicale, che resta maggioritaria ma comprende numerose altre attività: cinema, teatro, circo, cabaret, talks e incontri con scrittori, e ancora laboratori di tecnologie e culture sostenibili, stands di cibarie proveniente da numerose tradizioni gastronomiche, perfino un’area relax con le terme, spazi a disposizione di artisti e graffitari, nonché uno spazio preposto ai falò, ai piedi dell’enorme scultura fatta di alberi e piante varie, il Green Man del nome, appunto, che l’ultima sera viene bruciata, seguendo un rito ormai consolidato. L’altra caratteristica principale del Green Man, e anche in questo caso il nome dovrebbe dirvi parecchio, è la location meravigliosa in cui la manifestazione è immersa: quattro giorni di wilderness e campeggio, secondo la più autentica esperienza di festival inglese, seppure la qualità dei servizi igienici e delle docce fosse molto più alta delle mie aspettative. Tanta splendida natura intorno ai cinque palchi dove si sono tenuti i concerti: il Mountain stage, il palco principale, appoggiato su una collina che funge da auditorium naturale e con una serie di verdissime cime come sfondo; il Walled Garden, il palco minore, al centro di un giardino murato, come dice il nome, e il Green Man Rising dedicato ai gruppi esordienti, collocato di fronte a un laghetto delizioso, mentre gli altri, il Far Out, il secondo palco, dedicato alle performance più loud, il Chai Wallahs, che ha ospitato dub, reggae e world music, e gli stand del cinema e dei talks sono stati collocati sotto strategici tendoni, perché la pioggia pure è un elemento immancabile nei festival inglesi, al punto che è diventata una cosa cool andarci con gli stivaletti di gomma che siamo abituati a vedere nelle nostre pescherie o con gli scarponi da trekking. L’altra cosa che mi ha colpito molto è stata la percentuale di gente accampata ai piedi del palco al sole, durante i concerti diurni, seduti a leggicchiare col sottofondo di musica live e la classica pinta di birra o sidro a fianco: non ero pronto ad una così spaventosamente alta di gente con un libro in mano, ottima soluzione per le ore interminabili passate in fila per gli stands o per i bagni, e neppure al numero di stands di libri nuovi o usati in giro, che hanno in effetti trasformato l’esperienza naturale e musicale in una completa avventura trascendentalista. Tutto ciò, ebbene, raccolto in uno spazio moooolto minore rispetto a Glastonbury o qualsiasi altro festival, e riservato ad un’utenza di 20.000 biglietti, non a caso andati sold-out con almeno due settimane di anticipo: le dimensioni ridotte favoriscono un’atmosfera friendly e familiare in cui al terzo giorno ci si incontra e ci si riconosce, e in cui è davvero difficile perdersi, nonostante i cellulari morti al secondo giorno e praticamente impossibili da ricaricare.
Ma arriviamo finalmente alla line-up, che al di là dei grandi nomi coinvolti, è stata forse la parte del festival che mi ha suscitato qualche perplessità, forse dovuta più ai gusti personali del sottoscritto che alla realtà di fatto. Il cartellone mi è apparso un po’ monocorde e orientato su sonorità più folk e acustiche, decisamente poco aperto ai rumori e ai suoni sperimentali, con poche eccezioni – il che è probabilmente una cosa voluta, un’identità precisa che gli organizzatori hanno voluto imprimere al festival. La mia perplessità riguarda più che altro la scelta degli headliners, che mi è sembrata fatta puntando più su nomi celebri e popolari – per quanto non mainstream – che tenendo conto dei tanti gruppi di medio-alto profilo più interessanti in giro quest’estate. Questa cosa emerge soprattutto mettendo a confronto i concerti della sera con quelli diurni, andati avanti senza sosta dal mattino alle 12, che ho trovato molto più interessanti: il che non è stato necessariamente un male, visto che con l’improvviso abbassarsi delle temperature al calare del sole, il desiderio maggiore di tutti immagino fosse quello di chiudersi in tenda e bere il più possibile per superare la notte e sopravvivere per la giornata di concerti successiva. Questo aspetto è ancora più evidente se si confrontano i nomi più grossi di quest’anno con quelli dele edizioni precedenti, che hanno ospitato Mogwai, Yo La Tengo, Wilco, Flaming Lips, Fleet Foxes¸ Animal Collective. Ciò non significa che Beirut e Daughter non abbiano regalato due performances da brivido, per carità, concludendo il primo giorno di programma completo, e neppure voglio stare a sindacare sul grande ritorno in scena di Neutral Milk Hotel e Mercury Rev, entrambi in forma strepitosa, a cui si sono affiancati artisti per noi italiani magari meno noti, come la splendida Sharon Van Etten, ma forse ci sarebbe aspettato qualcosa in più che First Aid Kit eWar on Drugs per la domenica, e soprattutto si poteva fare a meno di mettere gli Augustines sul Mountain Stages in prima serata, lasciando esibire Anna Calvi, autrice del live act indiscutibilmente più straordinario e coinvolgente dell’intero festival, alle cinque del pomeriggio, o alle sette Bill Callahan e Sul Kil Moon, che pure si sono prodotti in performances da brivido. Infatti, non sono mancati momenti in cui la maggior parte della gente ha snobbato il palco centrale, concentrandosi di fronte al più piccolo Far Out, dove contemporaneamente si esibivano gli Slint, celebrando il ritorno in scena attesissimo con un live che non esiterei a definire epico, preceduti da Panda Bear e Break Horses, il sabato, Mac De Marco, Caribou e Policia la sera precedente, Real Estate, Kurt Vile and the Violators, e East India Youth la domenica, tutti affollatissimi, non meno delle esibizioni nell’After Dark, dopo mezzanotte, di The 2 Bears, The Field e Luke Abbot. Molto più gradevole – e non solo per le temperature – l’idea di spostarsi da un palco all’altro nelle ore diurne, lasciandosi catturare senza piani precisi dalle vibrazioni di un gruppo piuttosto che di un altro a dispetto degli headliners: ci si poteva imbattere così in Angel Olsen, Mutual Benefits e Neko Case, tutti sul Montain Stage intorno alle due del pomeriggio, o fare scoperte come Nick Mulvey o gli artisti gallesi come Georgia Ruth, voce splendida spesso accompagnata dall’arpa, e i 9 Bach, col loro repertorio folk in lingua gallese, Teleman, Tunng, Plank, Ought, Toy, Samaris e numerosi altri che a provare a nominarli tutti non basterebbero pagine e pagine di questa rubrica. Ancora a rappresentare con fierezza lo spirito gallese, c’è stata grande attesa per Gruff Rhys, presente in questa occasione non con un live act ma con la proiezione del suo film American Interior, dove racconta l’elaborazione del disco omonimo e il viaggio che vi sta dietro, più uno spassoso incontro col pubblico a seguirein cui ha presentato questo progetto ambizioso che comprende disco, film, libro e un tour europeo che partirà a breve – tour che passerà per Bristol l’11 settembre, alla Woodland Church.
E Bristol, appunto? Assolutamente minore, bisogna ammettere, la presenza del Bristol Sound, a dispetto della cospicua presenza dei locals riversatasi al seguito dell’icona del presenzialismo Big Jeff. Tra i gruppi locali, a parte singoli elementi intervenuti come spettatori, ho riconosciuto solo i Though Forms, che hanno presentato il loro secondo disco,e Francois & Atlas Mountains, che invece hanno esibito il loro quarto lavoro. Nessuno dei grossi nomi ha deciso partecipare al Green Man nell’anno del ventesimo anniversario di Dummy, e si che già sembra un miracolo che i Massive Attack si siano concessi quest’estate addirittura a due festival inglesi, Glastonburye il futuro On Blackheath, considerata la tendenza a snobbare i propri connazionali.
Per quest’estate le edizioni speciali di Bristol Sound sono finite: dal prossimo giro, si torna a casa, e alle consuete venues a cui spero vi siate un po’ affezionati. Giusto una menzione veloce, prima dei saluti e del ritorno alla routine invernale, all’ArcTanGent Festivalche si tiene questo fine settimana alla Fernhill Farm poco fuori città, festival dedicato a math, noise e post-rock che mette insieme Russian Circle, Mono, This Will Destroy You e God is an Astronaut: un ottimo warming-up per il Simple Things Festival di ottobre, che avrà come headliner i Mogwai.