“I’m not there, I’m gone”
29 luglio 1966. Bob Dylan ha compiuto da due mesi 25 anni, pochi giorni dopo aver dato alle stampe Blonde on Blonde registrato nell’ottobre del 1965. Ha alle spalle almeno tre vite. Quella di Robert Zimmerman, ragazzo dalle guance paffute del Minnesota con un amore sconfinato per Hank Williams e Woody Guthrie. Quella di Bob Dylan il poeta menestrello, la voce della contestazione giovanile che ha portato una ventata di aria fresca nel mondo del folk americano. Quella ancora del “Giuda” della svolta elettrica “with his fog, his amphetamine and his pearls”, vestito di nero, le guance scavate, che scrive “The ghost of ’lectricity howls in the bones of her face”, il verso che nessun poeta della beat generation ha mai scritto. Dietro di lui passano già come immagini su uno schermo la marcia a Washington del 1963, il Newport Festival del 1965, il tour in Inghilterra, il concerto di Manchester del 17 maggio 1966.
Dylan è stanco, “per reggere quel ritmo” – dirà il biografo Robert Shelton – “prendeva un mucchio di medicine”. Altri aggiungeranno all’elenco marijuana, eroina, anfetamine. Nonostante questo, il suo manager, Albert Grossman ha già pianificato altre 64 date. Ricevuta la notizia, Dylan ne è sconvolto.
29 luglio 1966. Bob Dylan sta andando da New York a Woodstock verso casa in sella alla sua Triumph Tiger, la moglie Sara lo segue a poca distanza in auto. All’improvviso il sole in faccia, l’incidente. Il mistero.
Nel bellissimo documentario “No direction home” Martin Scorsese racconta la vita, la storia del più grande cantautore di sempre fermandosi a quel preciso momento. Perché di quel momento non si sa nulla.
Non ci sono referti medici, non ci sono ricoveri in ospedale, sua moglie Sara lo porterà da un medico privato che dista circa un’ora di auto dal luogo dell’incidente. Nessuno saprà mai se l’incidente c’è stato, la sua gravità; il mito è alimentato dal silenzio non dall’eccesso. Dirà Dylan: «La svolta decisiva fu ritornare a Woodstock. Poco dopo il mio incidente. Stavo senza far niente una notte sotto la luna piena, guardai nel bosco tetro e dissi: “Qualcosa deve cambiare”».
Ciò che succede dopo è storia. Bob Dylan chiama a sé il gruppo di musicisti canadesi che lo avevano accompagnato in Inghilterra, quei “The Hawks” che dopo alcuni mesi avrebbero cambiato nome in “The Band”. In un primo tempo provano a casa di Dylan nella stanza soprannominata Red Room quindi si spostano nella cantina della casa che il bassista Rick Danko, il pianista Richard Manuel e l’organista Garth Hudson hanno preso in affitto poco lontano, soprannominata The Big Pink.
Siamo nella primavera del 1967. Dylan è in una cantina a registrare canzoni su un registratore a due piste posto sull’organo di Hudson che, oltre a suonare, ha il compito di registrare i brani (alcune canzoni sono, non a caso, senza i primissimi secondi). Scrive i testi su un’Olivetti in una stanza al piano di sopra e poi scende per suonarle con gli altri. Le canzoni non hanno all’inizio alcuno scopo, la libertà è tangibile, una finestra è aperta sulla campagna e un cane, Hamlet, gira liberamente. Su pressione della Columbia 14 canzoni vengono fatte circolare per proporle ad altri artisti, Dylan non guadagna moltissimo, ed è fermo già da quasi un anno. La leggenda inizia a formarsi. Nell’estate del 1969 compare quello che è universalmente ritenuto il primo bootleg rock della storia, “The Great White Wonder” che contiene alcune canzoni registrate in quelle sessions. Nel 1975 ancora su pressione della Columbia esce, finalmente, The Basement Tapes. Il disco è subito amato, Tom Waits lo elegge come uno dei suoi preferiti in assoluto e Neil Young si procura una copia privata dai nastri originali. Quello del 1975 è, però, un disco apocrifo, le canzoni sono rimaneggiate da Robbie Robertson, chitarra e voce della Band; vengono aggiunti sovra incisioni, pezzi scritti e cantati solo dalla Band.
Pian piano i Basement Tapes diventano un fiume carsico che, nutrendosi di nuovi bootleg, di nuove canzoni strappate all’oblio, attraverserà le cavità sotterranee della musica popolare americana per decenni. Greil Marcus il grande critico americano ha scritto un intero libro “Invisible Republic” per raccontarne la storia e l’impatto.
4 novembre 2014. Finalmente come undicesimo capitolo delle Bootleg Series sono state pubblicate interamente le 139 tracce salvate da quelle registrazioni, raccolte, ora, in 6 dischi in assoluto ordine cronologico di registrazione. Il risultato è sorprendente. Per la prima volta in maniera coerente e con un suono fedele all’originale è possibile coprire il “buco” nella vita di Dylan, l’anello mancante tra Blonde on Blonde e John Wesley Harding. Attraverso 33 inediti assoluti, cover di altri (Johnny Cash su tutti), frammenti, canzoni (in)compiute, gemme, episodi di pura ironia come “See you later Allen Ginsberg” si dipana come su una tela l’universo Dylan, le sue citazioni, i suoi riferimenti, la sua creatività ed espressività infinite. In “Kicking my dog around”, un documento eccezionale, ascoltiamo Dylan dare indicazioni su come vuole che sia l’armonia della canzone. Lo ascoltiamo ridere, provare diverse versioni nelle alternative takes. Offrire con “Blowing in the Wind”, “One too many mornings” e “It ain’t me babe” le prime prove dello stravolgimento a cui sottoporrà, a partire dagli anni seguenti, ogni sua canzone dal vivo. È come “vedere” un genio al lavoro, nella totale creatività senza filtro alcuno.
Dylan marca ancora di più il suo essere un ponte tra passato e futuro: c’è la tradizione, c’è la voce ancora acida della trilogia elettrica, viene posta la prima pietra, secondo molti critici, di generi come “alt-country” e “americana”. Nell’allontanarsi dalla sua dimensione pubblica Dylan ripercorre i suoi stessi passi: da una musica più propriamente popolare americana fino all’esplosione elettrica (evidente nel quinto e sesto disco) ma i confini non sono mai chiari, un genere mostra i segni evidenti di ciò che l’ha preceduto e di ciò che l’ha seguito. C’è, sopra tutto, la gioia di fare musica, di essere liberi di scrivere, di sperimentare: parole, melodia, metrica.
“The Complete Basement Tapes” è la testimonianza su disco che ciò che più conta in Dylan non è il testo o la melodia o l’armonia. Conta la voce. Dylan appare qui, più che mai, alla continua ricerca non del modo giusto di cantare una canzone ma di quello che più si avvicina al senso ultimo della canzone stessa. La missione di Dylan è una ricerca di senso; le canzoni, gli accordi sono il mezzo e non il fine. Dylan non offre mai la stessa interpretazione perché quello che era vero un attimo prima non è detto che lo sia l’attimo successivo.
Bob Dylan e questi Basement Tapes sono il documento tangibile di una delle esperienze (non solo musicali) più libere di tutto il novecento. I sei dischi ruotano intorno ad un pezzo presente nel terzo cd che è “I’m not there”. Mancano i primi secondi, se si prova a mandarla in loop sembra una sorta di mantra, Dylan avrebbe potuto scriverla in qualunque istante della sua carriera con il suo tema ricorrente del dover andar via, del non poter restare ingabbiato, del non voler essere inquadrato. È il pezzo che ha dato il titolo al meraviglioso film di Todd Haynes che più di altri ha saputo cogliere l’essenza del musicista di Duluth. Bob Dylan è sempre altrove da dove avevamo immaginato che fosse. Bob Dylan non esiste, non esiste l’uomo senza il musicista. La sua vita e la sua esperienza musicale coincidono e disegnano continuamente un nuovo scenario. Dylan è il paesaggio che osservi dal finestrino di un treno, puoi coglierne le tracce, mai il tutto. Perché il tutto non può essere abbracciato. Dylan da 50 anni semina frammenti di verità, indizi: una piccola screziatura nella voce, un cambio di tempo stanno ad indicarti che qualcosa è cambiato e tu con lei. Bob Dylan non è mai fermo, is not there. Dopo il menestrello country, verranno il ribelle con la maschera di biacca degli anni ‘70, la svolta cristiana evangelica e la musica gospel, l’ebreo praticante, l’uomo confuso degli anni ‘80, la resurrezione di “Oh Mercy” prima e di “Time Out of mind” poi.
The Complete Basement Tapes con le sue sei ore e mezzo di musica è, dunque, più che una collezione di dischi, il racconto sonoro di un passaggio fondamentale non solo della carriera di Dylan e della Band ma dell’intera cultura musicale americana. Rappresenta un ulteriore tassello nella ricerca dell’assoluto che non conosceremo mai, è il viaggio segreto dentro la creatività di un artista, un inno alla libertà di rifuggire dalle regole del mercato, delle case discografiche, di riappropriarsi di se stessi. Di essere, finalmente, se stessi, qualsiasi cosa significhi.
Maggio 1967, Bob Dylan rilascia a Michael Iachetta la sua prima intervista dopo l’incidente: «Quello che sto facendo principalmente è vedere solo pochi amici intimi […] leggere libri di persone di cui non hai mai sentito parlare, pensare a dove sto andando, chiedermi perché sto correndo, e perché sono troppo confuso, cosa sto apprendendo, cosa sto dando, cosa sto prendendo. E soprattutto quello che sto facendo è tentare di migliorare me stesso e di fare musica migliore, che è tutta la mia vita».