Mentre a Firenze si celebrava il nuovo iPhone della sinistra, leggevo da qualche parte che l’Isis sarebbe in grado di inviare 40.000 tweet in un giorno, tale è la rete di account collegati tra loro per amplificare un messaggio sostanzialmente presidenzialista: Allah è grande.
Così mi è venuto in mente Renzi, il suo allure di onnipotenza e la tenacia dei suoi boyscout.
40.000 tweet in 24 ore, un fantomatico progetto politico che si pone come un debug del vecchio sistema, la velleità maggioritaria, l’aspirazione di creare una nuova nazione, un capo carismatico attorno al quale fare quadrato contro detrattori da demonizzare. E allora ho pensato: vuoi vedere che l’al-Qaida 2.0 è pronta per la sua Leopolda?
Con l’hashtag #TakeItISIS i jihadisti di nuova generazione potrebbero aprire al mondo il rebranding del terrorismo islamico, ora riaggiornato, smart e virale più che mai, autocelebrandosi in una convention attorno a tavole rotonde, lecture in stile Ted e selfie di gruppo come se non ci fosse un domani. Sai mai che il nuovo califfato in questo modo non si prenda pure voti dall’elettorato del Pd, pashmina compresa.
Una Leopolda del genere, magari in una stazione abbandonata a Kobane ecciterebbe un casino gli spin doctor dello Iulm. Sì perché analizzare la media strategy dell’Isis sembra essere diventato l’hobby nerd-geopolitico più in voga del momento, passata al vaglio tanto da qualsiasi analista di testate internazionali come il Guardian, il Telegraph, Vice etc, quanto dalle incredibili rivelazioni di Adam Kadmon su Italia Uno.
Pure BuzzFeed ha dedicato un mega post ad al-Baghdadi, carismatico leader del califfato, manco si trattasse di Ryan Gosling, giusto per rendere l’idea verso dove può soffiare il vento dell’hype.
Ma da dove arriva tutto questo interesse?
Forse dall’implicito parallelismo che si compie nell’associare quel tipo di mondo, che per anni abbiamo creduto barbaro e lontano dal nostro, così imbevuto di progresso e caratterizzato dalla centralità che la comunicazione ha acquisito nella politica, soprattutto nel versante “New Dem”, da Obama all’Obama al Lampredotto.
Eppure io non ci vedo nulla di così strano in questa evoluzione compiuta dai fondamentalisti islamici. Al giorno d’oggi direi che costituisce la norma fare di una qualsiasi organizzazione politica o militare e terroristica un brand. E se hai un brand devi anche avere una strategy e un client. Per quanto possa essere efficace la prima, nel caso dell’Isis, a me inquieta molto di più il secondo.
Invece la curiosità del mondo sembra cadere di più sul branding ideologico – che poi è sempre lo stesso, dai – o sul merchandising acquistabile su Amazon ed eBay, aneddoto che fa tanto colore e scalpore per raccogliere click, likes e lol, o ancora sul fatto che internet ha moltiplicato le opportunità dei fondamentalisti di comunicare e fare proselitismo. Ma va?
Così come per la politica occidentale, ciò che piace all’opinione pubblica è soffermarsi sulla cosmetica: la factory di Obama che fa vincere due mandati al primo presidente nero della storia, le slide stilose di Renzi, il più giovane Presidente del Consiglio democristiano del Paese e infine i tweet dei terroristi, che hanno appreso dai nostri leader un principio molto semplice: che l’opinione pubblica si conquista con i selfie. Gattini compresi.
Tutto mi è sembrato più chiaro quando anch’io, come tantissimi altri, ho compiuto lo sforzo di guardare il video dell’esecuzione di James Foley che è molto diverso dal war splatter che ci aveva abituato al-Qaida. Violenza edulcorata, scenografia curata, videoediting, postproduzione: un videoclip pronto pure per Fazio, frutto di una diversa strategia, molto più artefatta. Diverso anche il mittente e l’obiettivo dell’operazione.
Nell’aria odore di trapasso. L’Isis che rottama il jihad old school?
Il successo politico di un leader come Renzi, per quanto la sua comunicazione possa rappresentare un percussivo e banale remix di ottimismo e luoghi comuni, ha avuto successo per aver delineato un nuovo target sul quale scommettere, in uno scenario politico post berlusconiano. Allo stesso modo nel 2014 a fare il jihad non sono più i mujaheddin afgani che hanno combattuto i sovietici negli anni ’80. E manco gli amici di Bin Laden: ecco, magari i loro colleghi più hipster. Anche qui si tratta di una questione generazionale e di diversificazione del metodo in base all’evoluzione del target: un principio fondamentale tanto nella politica quanto nel marketing. Riformulare la brand identity per riposizionarsi sul mercato.
Di qui la popolarità dell’Isis. Eppure, malgrado la sovraesposizione e il raffinato orrore propagandistico di quelle immagini montate e rieditate con Final Cut, nessuno che abbia avuto il coraggio di dire che il tizio che ha decapitato Foley parlava l’inglese meglio di Matteo Renzi.
(particolare che dovrebbe farci provare qualche brivido in più)
Da una parte il Premier che non vuole tagliare l’Iva e che aumenta l’imposta per il regime dei minimi, dall’altra l’Isis che taglia direttamente la testa ai freelance.
Ma la risolutezza dei fondamentalisti non si rivela solo in questi particolari. In Indonesia (cioè il primo paese più popoloso a maggioranza musulmana) l’Is regala del pollo fritto a coloro che si vogliono arruolare. Pollo fritto. Se lo spediscono a qualche città ad alta concentrazione di afroamericani come Detroit o Baltimora magari sarebbero in grado di racimolare un po’ di consenso negli Stati Uniti, fatto sta che queste tecniche di propaganda denotano, per lo meno, una certa sensibilità verso un marketing coatto di primo livello. Oggi il pollo fritto, domani il nuovo album free sui profili iTunes di mezzo mondo e poi, chissà, magari 80 euri allungati in busta paga.
Bono Vox dopo aver fatto i complimenti a Renzi magari potrebbe anche apprezzare la cheap strategy del califfato se solo i fondamentalisti gli endorsassero almeno un singolo attraverso i loro canali.
Tuttavia l’Isis ha dato prova di saper esprimere dei contenuti anche attraverso media più complessi e analogici. Ok, i social e le video compilation, ma i fondamentalisti si sono cimentati nella creazione di prodotti editoriali più raffinati, tra magazine e testate online. Prima del famoso Dabiq c’era l’Inspire, rivista in lingua inglese di Anwar al-Awlaki, peraltro formatosi negli USA.
Mentre nel 2005 il meno patinato Jihad Fighter online illustrava come fabbricare bombe a dispersione radiologica utilizzando materiali nucleari di scarto. Ma ci leggevi anche dritte sulla creazione di esplosivi, armi di distruzione di massa e pure qualche compendio sulla tecnologia missilistica. 80 paginette molto easy che fanno più male di qualche tweet. Per i lettori forti andavano invece un casino le 1600 pagine di The global islamic resistance, un testo comparso l’anno prima e che a quanto pare ha influenzato le nuove generazioni di jihadisti.
Il succo del discorso: non più operazioni militari con impiego di molti uomini, mezzi e armi ma azioni individuali, magari suicide, o portate avanti da piccoli nuclei autonomi. Benvenuti nel terrorismo islamico moderno: la pistola fumante in mano è rappresentata da questi piccoli e agili Manuali della Giovani Marmotte che ti spiegano come farti saltare in aria per il volere di Allah e del suo profeta.
E stiamo parlando di dieci anni fa. Se i siti jihadisti sono aumentati da 30 nel ’97 (anno della prima intervista in tv di Bin Laden alla CNN e primo step verso la vocazione mediatica del jihad) ai 6000 e passa di oggi (a cui aggiungere un pulviscolo indecifrabile di profili social, blog e forum temporanei che orbitano attorno al jihad online) facile immaginare da una parte l’acquisizione di un certo know how, dall’altra un incremento della popolarità dato dall’allargamento (anche geografico) del pubblico.
Altrimenti come spiegare certi fenomeni?
Esempio: fino a poco tempo fa potevi scaricarti dal Play Store di Google The Dawn of Glads Tidings (L’Alba delle Buone Notizie), un’app che permetteva ai gestori degli account ufficiali dell’Isis di spedire messaggi tramite gli account dei loro seguaci. Ecco spiegate le mitragliate di tweet e di jihad spam in giro per i social, magari in giorni cruciali come la presa di Mosul.
Esiste(va) pure una web serie pubblicata su YouTube (poi rimossa, ma si trova uploadata in giro) chiamata Mujatweets – sì, davvero – prodotta da una Ong Giordana, Al Hayat Media, in realtà considerata dagli specialisti la Mediaset dell’Isis. La lotta armata veniva edulcorata quasi rispondendo ai dettami classici della corporate communication di un’azienda di strategia politica. Sit com compresa.
La velocità del messaggio, la sua viralità, la facilità nel creare contenuti, la rete che facilita l’anonimato, che supplisce una serie di strutture, che risparmia un sacco di sbattimenti, abbattendo persino i costi, eccetera eccetera eccetera: se il web diventa un campo di addestramento o una sorta di “social ummah“, per quanto virtuali, si risparmia tempo e denaro facendo leva su un malessere diffuso e sulla forza di un messaggio tanto brutale quanto seducente nel creare attorno a sé un orgoglioso senso di appartenenza.
C’è sicuramente da dire che se l’Is affonda le proprie radici nell’insurrezionalismo iracheno durante l’occupazione americana e si guadagna l’attenzione globale dopo la rapida conquista di territori e grandi città, trova nell’informazione globale un mercato ghiotto per vendere il suo prodotto confezionato ad arte, del quale possiamo decantare l’efficacia ma che guardato da vicino rivela i suoi limiti, per quanto congeniali.
Prendiamo ad esempio i famosi video di propaganda. Può spiazzare la cura e la conoscenza delle nostre fiction, ad ogni modo va anche detto che si tratta di collage raccogliticci di film e serie tv occidentali alla cazzo. L’effetto è quello di un flusso sconclusionato di immagini e sequenze completamente distortive che manco Lucignolo e che illustrano ad esempio le gioie della vita del jihadista tipo. Una pacchia incredibile: ville con piscine, selfie nel lusso più sfrenato, niente sangue, polvere e interiora che eravamo abituati a vedere nelle immagini gore che ci provenivano da Gaza alla Siria.
Ne esce un messaggio incredibilmente assurdo. Se vieni a combattere con noi sei un figo che instagramma scatti da #bellavita.
Fare il jihad è incredibilmente SWAG.
(da noi Renzi non si è spinto oltre il giubbetto di pelle e Maria De Filippi)
La cosa simpatica è che il terrorismo islamico, forse per far più presa sui giovani, si è talvolta appropriato di simboli, gesti e pose tamarre tipiche della cultura gangsta rap (*). In questo modo i fondamentalisti comunicano direttamente con le periferie degradate e incazzate di mezzo mondo, dalle banlieu alle metropoli multietniche, che per le minoranze costituiscono sempre e comunque dei ghetti. Trapiantare quel linguaggio rimescolato ad arte nel deserto siriano-iracheno risulta incredibilmente funzionale. Vieni, è qui lo sballo. Se lo fai ti diamo in mano un fucile in omaggio.
(*) basti pensare ad Abdel-Majed Abdel Bary, il rapper britannico sospettato di essere il boia di Foley. O Deso Dogg, cantante hip hop tedesco partito per combattere in Siria e secondo alcuni divenuto consulente per la comunicazione di al-Baghdadi (e che forse hanno fatto fuori in aprile). O ancora al nostrano McKhalif (Anas al-Aboubi), bresciano, comparso persino su Mtv, partito pure lui per raggiungere il fronte al servizio del califfato.
Un flusso di contenuti allucinatorio e paradossalmente distante anni luce dalla realtà. In poche parole l’obiettivo è quello di anestetizzare, nascondere e sviare, una tecnica che sta alla base di qualsiasi forma di propaganda per un “nuovo” messaggio politico. Il pubblico, lo spettatore, viene persuaso del fatto che la realtà è un’altra. Se poi gli vendi un sogno, un’utopia, una lotta armata, hai tanto Berlusconi, quanto Renzi o l’Isis.
Allah è grande, i magistrati sono comunisti, il jihad è una passeggiata di salute, i ristoranti sono pieni, il Futuro è solo l’Inizio, la crescita è un videogame, combattiamo la recessione a colpi di hashtag e tavole rotonde con l’iPad, pianteremo la bandiera dell’Isis in Vaticano con i nostri AK placcati in oro, YO!
Tutto ciò è malvagio ma non esattamente geniale.
Sembra quasi di essere tornati indietro di qualche anno quando erano in molti a ripetere il mantra del “Berlusconi comunicatore straordinario”. Ok (soprattutto quando c’hai giornali e televisioni di proprietà) ma si trattava pur sempre di una comunicazione crassa, di un messaggio finto, ora plastificato ora pecoreccio ma sempre da un tanto al chilo, in grado di persuadere una certa fetta di popolazione magari con certe caratteristiche o predisposizioni. La stessa retorica di Renzi, per alcuni vuota, bambinesca, supercazzolara è studiata per far colpo su una massa disidratata.
Perciò può essere divertente e appassionante fin che vogliamo analizzare e dissezionare il b-movie Berlusconiano, la ridicolaggine della Leopolda-open-source, così come l’horror 2.0 dell’Isis, ma il punto probabilmente più decisivo non sta tanto nella presa visione dell’ovvio, ovvero l’efficacia del messaggio, per quanto becero, infantile o pericoloso, e le oggettive potenzialità del medium sotto gli occhi di tutti, bensì comprendere perché ci siano persone disposte a interiorizzare quel messaggio e di farlo proprio come principio biopolitico. Soprattutto se stiamo facendo riferimento a soggetti che magari possiedono capacità e strumenti per adottare una visione d’insieme globale o comunque un discernimento critico più ampio di un diciottenne iracheno bombardato dai droni americani.
Probabilmente si tratta di una questione più complicata e che getta ombre sulla nostra società e sul nostro sistema, o se vogliamo sulla natura umana in senso più assoluto. Insomma, accorgersi di un bacino d’utenza pronto per il jihad senza per forza avere la guerra in casa. Cos’è tutta questa potenziale audience?
Scendano in campo le penne di un certo calibro a farci chiarezza, magari con un pezzo ben scritto. Gad Lerner, Gramellini, un’amaca di Michele Serra o ci faremo bastare un’arringa di Giletti la domenica pomeriggio. Qualsiasi cosa che non sia manierismo da colonnista di professione.
Ad esempio l’altro giorno ho letto di questa pazza idea per sconfiggere i terroristi. La tesi di fondo era la seguente: tra la mollezza dell’Europa e gli Epic Fail degli americani, per contrastare l’Isis ci vorrebbe il Mossad. Del resto Israele è la nostra roccaforte in Medio Oriente che paga con il sangue il fatto di essere un avamposto della democrazia e dei valori occidentali.
Morale della favola: se vuoi ammazzare degli arabi inutile rivolgersi a dei dilettanti. Chiama gli ebrei.
Già, chissà se pure loro ce l’hanno una Leopolda con la comunità internazionale in kippah.
In attesa del fosforo bianco, l’Occidente non potrà far altro che fantasticare e tremare di fronte alla minaccia digitale dell’Isis che si fa sgamare i campi di addestramento da Bing Maps e Google Earth. Monitoraggio via satellite, agenti della CIA? No, semplici cittadini.
E non ci farà nemmeno più specie leggere cose del tipo “L’Isis fa paura perché parla la nostra lingua” o perché “usa i nostri mezzi e tecniche di comunicazione”. Nessuno obietterà “e grazie al cazzo, è proprio questo lo scopo del terrorismo!” e metterà in chiaro che sarebbe anomalo il contrario se l’Isis riscuotesse lo stesso successo di popolarità senza gli strumenti di cui si avvale.
È il 2014 e ci svegliamo in un mondo dove il web costituisce non solo un’immensa risorsa per il reclutamento e la propaganda, ma anche la migliore possibile. Twittatelo. Magari qualcuno vi apprezzerà, penserà che siete delle persone davvero argute, vi darà del nerd come se foste un miliziano qualsiasi e Riotta vi retwitterà, aggiungendolo tra i preferiti.
Se anche voi avete dato un’occhiata al documentario di Vice che è riuscito a realizzare un reportage sullo stato islamico spiegando come funzionano le cose lì da loro, probabilmente avrete capito che il califfato è pronto per organizzarsi come qualsiasi altro sistema gestionale. Con o senza Leopolda, perché, diciamoci la verità, quando Maometto è dalla tua parte sticazzi le tavole rotonde, i buoni propositi dal basso, i mal di pancia dei sindacati e le uscite della Picierno.
Male che vada lasciamoli fare. Permettiamo di instaurare il loro stato sovrano, che si diano regole e confini. Probabilmente il progetto e la popolarità dell’Isis andranno a puttane quando anche loro dovranno lasciar perdere le cazzate dei social e saranno costretti a varare la Riforma del Lavoro.