29/04/2013, Roma
Sono le 22.02, arrivo in via di Pietralata con l’aria stralunata e la testa ovattata dopo un intenso e come sempre insopportabile lunedì romano. La serata è fresca, finalmente primaverile e non c’è posto migliore per riprendersi dalla classica depressione di inizio settimana che il Lanificio. Ricavato da un ex fabbricato industriale, il lanificio si affaccia con delle ampie vetrate su una porzione incontaminata del fiume Aniene. Uno dei locali più belli di Roma, nonché uno dei club più attivi, che negli ultimi anni si è anche affermato dal punto di vista della live music, ho visto suonarci gente del calibro di Nosaj Things, Junior Boys, Japandroids, Xiu Xiu, per fare qualche nome.
Mentre mi appropinquo all’ingresso sento provenire dall’interno una voce sbiascicante che “canta” su delle note di pianola, bah. Entro e trovo sul palco due tizi visibilmente già ben cucinati intenti ad improvvisare un piano bar alla Umberto Smaila. Amici di Mac DeMarco sento dire, annamo bene.
Il divertente ma esasperante siparietto dura ancora pochi minuti. Con qualche difficoltà i due lasciano il palco. Giusto il tempo di una birra e che il pubblico si rinfoltisca, sebbene di poco, e il buon Mac DeMarco è lì sul palco col suo bel sorrisone da ragazzo di periferia insieme alla sua band.
Se vi fate un giretto per i blog musicali troverete scritto “Mac DeMarco è un artista iconoclasta che gioca con le antiche regole del trasformismo glam di David Bowie e dei Roxy Music, è la moderna versione di Patrick Wolf e Peaches”. Per quello che vi posso dire io, Mac DeMarco è un cazzone.
D’altronde come si può definire uno che posta sulla sua pagina youtube video idioti di culturismo self-made? (vedere per credere) Da buon cazzone è uno che suona principalmente perché gli gusta tanto farlo e sul palco vuole divertirsi e intrattenere il pubblico, riuscendoci alla grande.
Quello che Mac e la sua (valida) band propongono è un garage-pop che se da un lato ricorda i primi strokes, dall’altro è infarcito di sonorità rock&roll che sanno tanto di anni ’60.
Il concerto inizia con Cooking up something good , riuscitissima opening track dell’album “2”. Sull’attacco del godibilissimo riff acustico, il pubblico è subito a suo agio, il coretto “ooh when life moves this slowly, ooh just try and let it go” è irresistibile. Senza pause e tra un “God bless you” e un “thank you” a 36 denti, seguono in rapida successione The Stars keep on calling my name e Rock and Roll Night Club, prima traccia dell’EP d’esordio, fino ad arrivare alla “hit” Ode to Viceroy, spassionata dichiarazione d’amore verso..una sigaretta, “oh don’t let me see you crying ‘cause oh honey I’ll smoke you ‘til I’m dying”.
Da qui, catturata ormai la simpatia e i padiglioni auricolari dello sparuto pubblico, lo show prosegue su ottimi livelli, Mac e i suoi si prendono anche la briga di inserire citazioni musicali, come lo snippet da Take Five di Brubeck nella coda strumentale di She’s really all I need. La chiusura è affidata alla ballad Still Together, interpretata come lo farebbe l’alter-ego scoppiatone di Frank Sinatra, durante la quale sale sul palco, a render ancor più accattivante lo show, il duo da piano-bar di cui sopra.. avevano ragione, sono amici di Mac DeMarco.
Rinvigorito nello spirito da questa fresca performance, esco a godere della brezza primaverile che soffia piacevolmente sull’Aniene. Ma non c’è tempo, le luci iniziano a spegnersi, la sala si popola, adolescenti inquieti si fanno spazio per andare nelle prime file, solo un led rosso sopra la mia testa a illuminare. Stanno per arrivare i Suuns.
Un scroscio di mare in tempesta irrompe dalle casse, il pubblico inizia a fremere, i quattro canadesi salgono sul palco, una pulsazione in crescendo sale dal basso, roboante, inquieta, le prime teste iniziano ad ondeggiare, l’attacco è affidato a Music won’t save you, traccia conclusiva dell’ultimo Images du Futur. “Look away, away from the light, I’m not trying, trying to lie, I hear you man sing the same old song, Yeah music won’t save you”. Altro che brezza di primavera, qua si sprofonda nella paranoia più assoluta, penso tra me e me.
Non il tempo di un respiro e la chitarra post-punk di Powers of Ten irrompe ad alto volume, il cantato nasale e contrito di Ben Shemie è lamentoso e ossessivo, la batteria è secca e si estende su tappeti elettronici soffocanti. Nel turbine oscuro e assordante arriva il momento del pezzo che lo scorso inverno ha fatto da padrone in migliaia di playlist, 2020, il basso pulsa vorticosamente, tra le prime file si scorgono sguardi estasiati, completamente abbandonati al magma sonoro.
Con la tripletta iniziale, l’impatto dei Suuns è decisamente forte, muri di chitarre distorti e graffianti che si fondono su frequenze sintetiche e disturbate, psych-rock sulle orme dei Clinic, sperimentazioni elettro-industrial studiate dall’enciclopedia di Trent Reznor. I quattro ambiziosi canadesi, anche dal vivo, riescono a dar forma all’universo inquieto e notturno dipinto dalle Images du Futur. Tuttavia col proseguire del concerto tanti nodi vengono al pettine e più di qualcosa inizia a non tornare.
Nel core centrale del concerto si palesano diversi limiti tecnici, il batterista, forsennato quanto legnoso nei movimenti e nella ritmica pare un burattino o la voce di Ben Shemie che spesso ricorda troppo quella di Brian Molko alle prese con una brutta gastroenterite. Molti pezzi hanno poco sapore e consistenza, finendo con l’annoiare, perchè troppo incentrati solo sulla volontà di creare quell’angoscioso blob sonoro ritmato e cupo in cui ogni adolescente che si rispetti possa abbandonare il suo male di vivere.
E mentre sono lì a riflettere su questo, arriva il turno di Sunspot, uno dei pezzi migliori di Images du Futur, un’intelaiatura sonora ricca e dal buon gusto psichedelico. Ma mentre i quattro si dimenano nella coda strumentale del pezzo, ecco che mettono su un lungo campionamento tratto da un famoso discorso di Papa Giovanni XXIII°, sì avete letto bene, quello della celebre frase “Oggi quando tornate a casa date una carezza ai vostri bambini e ditegli che è la carezza del Papa”. La distorsione si dissolve, il pezzo finisce e io resto semplicemente perplesso, come quando sbaglio mira e piscio fuori dalla tazza.
A questo punto c’è spazio per l’ipnotica Pie IX e per un bis con Up past the Nursery e Sweet Nothing, tratte entrambe dal primo LP della band. Le casse si staccano, le orecchie fischiano a dismisura, gli affiatati delle prime file restano confusi, sudati e barcollanti ancora per qualche minuto.
La missione dei Suuns è riuscita in pieno, sicuramente un live che soddisfa le aspettative di chi quest’inverno si è sparato a tutto volume Images du Futur e non aspettava altro che sbattere a gran velocità contro un muro sonoro che non lasciasse scampo.
Così è stato. Ma a guardarlo bene questo muro, le crepe che si notano non sono poche.