Foto a cura di Lisa Barbieri
Per chi non ci fosse mai stato, il Covo è veramente come ce lo si può immaginare ascoltando le canzoni dello Stato Sociale. Luci soffuse per ambienti raccolti e collegati tra loro da passaggi stretti, diapositive di icone della musica indipendente proiettate sul muro, da Johnny Marr a Ziggy Stardust, e infine la sala concerti – lunga e stretta e scura – col palco che ti aspetta in fondo, come schiacciato tra la gente che mano a mano affolla l’ambiente. Un paio di luci cianotiche sul palco spoglio illuminano la batteria, gli occhi rossi degli ampli fender già accessi e accatastati contro una delle due pareti.
Che ci sarebbe stata gente me lo aspettavo: non è una sorpresa che stasera suonino i Suuns. Non è una sorpresa che Images du futur sia assolutamente una delle realtà più interessanti di questo duemilatredici che di band ne ha riproposte tantissime e riconfermate pochissime. Non è una sorpresa che questa sia una delle serate più accattivanti che il Covo ci potesse offrire quest’anno, e per coloro che replicheranno “Ma ci sono pur sempre i Lumineers”, forse proprio non ci capiamo. Poco importa: l’attesa è palpabile, la sala attraverso la quale mi faccio spazio ormai è stracolma. Non che fosse questa fosse un’impresa impossibile, ma quindici euro d’ingresso si devono essere rivelati un ottimo deterrente anti-poser, oltre che un ottimo carburante per finanziare una band che, da una Montreal-obiettivamente-fredda, si è spinta fino ad una Bologna-quasi-fredda-d’-autunno-che-avanza.
Tutto d’un tratto la musica di sottofondo s’interrompe: un istante si silenzio ed il pubblico è sommerso da un’onda di bassi sintetici profondissimi, di quelli che ti fanno vibrare anche la bellezza interiore. Una voce tagliente da muezzin intona un canto dalle sonorità arabeggianti, una sorta d’invito alla preghiera per tutti coloro che assistono in silenzio, attoniti. Poi l’entrata in scena tipica del Covo, a dir poco un marchio di fabbrica: Ben Shemie & soci salgono sul palco attraversando la folla, facendosi largo piano piano con gli strumenti già in mano, tra gli applausi del pubblico. Nessuno muove un muscolo. S’inseriscono i jack, risuonano un paio di colpi su tom e timpani. Il canto in base ormai sta per raggiungere il culmine poi boooooom, una stordente esplosione noise all’unisono per i quattro di Secretly Canadian, una grandinata di plettrate sotto riverbero, con i bassi di Max Enry alla consolle e la cassa di Liam O’Neill che cresce e cresce e cresce. Di nuovo piomba il silenzio. Rimane solo la chitarra di Ben tesa in un lungo accordo spasmodico, forsennato, tesissimo: come l’album, il concerto si apre con Powers of Ten. Forse non sarà il trionfo del suonare a tempo, come conferma anche l’ingresso della sessione ritmica, ma tanta è l’intensità, tanto il graffio rabbioso della voce tisica dei Suuns che i più sembrano non accorgersene. Dopo un primo scroscio di applausi, torniamo immediatamente al successo del disco d’esordio con Gaze, come a ricordare che, prima ancora del futur, il passato è ancora presente: i quattro chiudono il brano con una coda live esplosiva che non ha nulla a che vedere con la versione disco: chitarre trascinate fino quasi alle caviglie, assoli ululanti in wah wah apertissimo, attacchi spaventosi. Il concerto prosegue con Bambi tra beat di batteria spaccacuore, dritti e martellanti, che lasciano tutti attoniti, ma quanto è vero iddio ti comprerò un metronomo [alla fiera dell’est (per due soldi)], caro O’Neill.
Arrivati a 2020, a farla da padrone è il curioso uso della chitarra slide di Joseph Yarmush che, non appena posato il bottleneck, prende in mano il basso abbandonato da Max Enry rispettando la teoria del polistrumentismo come figata totale da me presentata in un precedente articolo (vedi, Il Buon Concerto: Il Galateo secondo Local Natives w/ Cloud Control ), mentre quest’ultimo se ne torna in consolle/tastiera.
Anche la seconda parte del concerto sembra privilegiare Zeroes QC piuttosto che Images du futur, dalle sonorità electro wave di Arena ai deliri acidissimi della chitarra di Pie IX, con il suo canti straziante, da animale ferito, che si trascina per tutto il pezzo o quasi.
Gli attacchi di passaggio quiet/loud si rivelano costantemente impressionanti anche se sul palco sembra non accadere pressoché nulla: i quattro montrealesi rimangono impassibili, immobili, chini sui propri strumenti, la chitarra di Shemie tocca letteralmente terra in un paio di occasioni. Non può che essere il potere della consolle, non trovo altra spiegazione. O forse soltanto non sentono il desiderio o il bisogno di offrire un buon dimenamento visivo, oltre che sonoro.
I Suuns dimostrano poi di sapere usare tutta la strumentazione in modo alternativo: in un paio di occasioni Max chiude i brani sfruttando il rumore della molla del riverbero all’interno degli amplificatori. Seppur con delicatezza, sembra li stia picchiando, ed infatti è proprio così.
Nota curiosa: un momento di jam dilatata ormai in chiusura di concerto diventa l’occasione per introdurre una linea di basso strascicata ma inconfondibile. È quella di Take a walk on the wild side. Quasi nessuno sembra accorgersene. Di certo non il ragazzo davanti a me, che continua a dimenarsi come un matto nonostante l’atmosfera più intima e raccolta, né la ragazza ancora oltre, sotto il palco, che si contorce – sì, l’espressione è giusta – si contorce con tutto il corpo a tempo di musica, e che deve aver preso una dose doppia di quello che ha preso il sopracitato. Ammirevole riferimento, anche se forse i Suuns hanno peccato di mainstream dimenticando che nella stessa settimana della morte di Lou Reed il mondo della musica ha perso anche Manolo Escobar, autore del Porompompero. Inutile dire che ho rimpianto un medley del genere. Un’occasione a dir poco sprecata.
Il concerto si chiude sulle note dark wave di Music won’t save you.
È passata appena un’ora tonda e svizzera. Non ho avuto neppure il tempo di sudare.
Mentre lasciano il palco, Yarmush saluta tutti, ringraziando il pubblico e informandolo che questa è stata l’ultima data del tour. Sono state le uniche parole dette durante il concerto. U
na parola è troppa e due sono poche, mi verrebbe da dire, ma lo imito e non aggiungo niente.
Di certo i Suuns non hanno regalato uno show nel senso proprio del termine. Zero contatto con il pubblico, scaletta magra, alcune imprecisioni nell’esecuzioni, vertici di tecnicismo nell’uso di ricercatissimi accordi bicordi … Eppure sono stati cupi, perversi, ipnotici. Per quell’ora non abbassi la testa all’orologio neanche una sola volta. Ci si stupisce che l’esibizione sia durata così poco proprio perché pensavi fosse durata ancora meno.
È certo che i Suuns si rivelano nella dimensione live soltanto in maniera parziale. Cioè attraverso l’energia della loro musica, attraverso gli attacchi impressionanti, attraverso lo charme malato e intrigante di un gruppo che gioca con riferimenti “colti” senza esserne sopraffatti, riuscendo a creare una dimensione propria, un sound che è riuscito a svicolarsi dai facili accostamenti a cui si è prestato fino ad ora per trovare una dimensione propria e di valore. Senza considerare la certezza di assistere alla performance di un gruppo che con strumenti vecchi – basso, batteria, chitarra, un paio di basi – cerca di fare qualcosa di nuovo, il ché mi sembra già degno di merito, in questo periodo di facili archetipi e revivalismi.
Si esce dal locale ancora asciutti, alleggeriti nel portafoglio ed un po’ meno nel cuore … ma con la certezza di aver assistito all’esibizione (un po’ incerta) di una band che sta realmente cercando di dire qualcosa. Se aveste voluto spendere ancora di più per un’ottima esecuzione e zero significato i nomi d’ “artisti” si sprecano. Come le querele.