“We che stai facendo?”
“Hey! Niente scrivo un articolo.”
“…Su chi?”
“Steve McCurry!”
“E chi è?”
“Quello della Ragazza afgana! Lo tieni presente?”
“Aaaah sì, sì! Ho una ristampa del National Geographic Magazine con sta tizia in copertina!”
Trent’anni di attività, venti passaporti, un centinaio di migliaia di immagini su Kodachrome, e poi vieni ricordato solo per una sua foto sul National Geographic Magazine del 1985 che ritraeva una ragazza afgana.
Per migliaia di fotografi, professionisti e non, Steve McCurry è l’emblema della fotografia di viaggio. I suoi scatti così nitidi, tratti da vita quotidiana in Nepal, Birmania o qualsivoglia paese “esotico” dal rendere il tutto così “facile” agli occhi dell’occidentale. Che ci vuole? Una reflex degna del miglior outfit “turista cinese a roma”, puntate l’obiettivo sulla vittima predestinata e scattate. Il male di vivere lo incontrerete successivamente davanti allo schermo, neppure l’ultima versione di Photoshop potrebbe aiutarvi!
Forse è questo il vero fascino di McCurry, il suo essere così facilmente copiabile ma allo stesso tempo inimitabile.
All’età di 19 anni, da un sobborgo della Philadelphia partì per un viaggio in India. Con due borse, una piena di vestiti e l’altra di film, tracciò una strada che percorreva tutto il subcontinete, esplorando il territorio esclusivamente con la macchina fotografica. Pochi mesi dopo varcava le porte del Pakistan, accompagnato da mujaheddin , proprio mentre la Russia chiudeva le porte del proprio paese a tutti i giornalisti occidentali. Da lì ne uscì smagrito, e con una decina di rullini nascosti tra i risvolti dei suoi abiti ormai orientali. In un batter d’occhio divenne la punta di diamante del New York Times, Life, Newsweek. Da allora il McCurry, ha continuato a scattare e viaggiare per i sei continenti.
«Se sai aspettare le persone si dimenticano della tua macchina fotografica e la loro anima esce allo scoperto.»
I suoi lavoro riducono i conflitti tra antiche tradizioni e cultura moderna al minimo, conservando in ogni sua opera l’elemento umano.
In questi suoi viaggi ha continuamente rischiato la pelle.
Dato per disperso un paio di volte, sopravvissuto alla picchiata di un elicottero in Bosnia, al crollo di un pontile a Goa, alle sanguisughe in Gujarat, a una bomba a grappolo e a un colpo di mortaio in Afghanistan, arrestato in Pakistan e Birmania, quasi linciato da una turba inferocita in India.Qui si capisce come la serenità delle sue fotografie più famose e la sua figura bonaria da ragioniere di banca possano essere in netto contrasto con la sua biografia.
«Il bianco e nero va sicuramente bene, e in generale tutto dipende dalle situazioni, però c’è da dire una cosa: la vita è a colori e per questo la scelta del colore mi sembra più logica, molto naturale. Attraverso il colore restituisco la vita come appare.»
Da fotografo “spericolato” a fotografo “colorita”, definizione banale affibbiatagli dalla critica per il l’uso spregiudicato di henné intenso, oro martellato, curry e zafferano, lacca nero profondo e marciume riverniciato nella sua fotografia.
«Ho fotografato per 30 anni e ho centinaia di migliaia di immagini su Kodachrome nel mio archivio. Sto cercando di scattare 36 foto che agiscano come una sorta di conclusione, per celebrare la scomparsa di Kodachrome. È stata una pellicola meravigliosa.»
Marciume impresso su pellicola fino al 2010, quando la Kodac gli affidò l’ultimo rullino della Kodachrome 64, benchè egli già da 5 anni fosse passato al digitale.
Quei 36 fotogrammi, sono conservati presso l’Eastman House di Rochester, come una sorta di Stelo di Rosetta dell’era Analogica.
Certo che per produrre una ventina di buone foto servivano mille scatti, però aveva un buon occhio e sapeva riconoscere una buona foto dall’umanità del soggetto che aveva dinanzi.
Un po’ come Michelangelo con quel marmo di Carrara che in potenza avrebbe dovuto rappresentare la sua Pietà.
«La sua pelle è segnata, ora ci sono le rughe, ma lei è esattamente così straordinaria come lo era tanti anni fa.»
Il caso della ragazza afgana è emblematico a riguardo. Aveva 12 anni, si chiamava Sharbat Gula, ma Steve lo scoprì solo 19 anni dopo, quando l’andò a cercare per dirle che il suo ritratto era diventato la copertina più famosa del National Geographic Magazine. Non ha mai considerato la Ragazza afgana come sua migliore fotografia,ma ormai quegli occhi verdi pieni di umanità lo avevano incantato, aveva trovato la sua Monna Lisa e non potè fare altro che accettarlo:
«So già che questa foto sarà citata nella prima riga del mio necrologio. Be’, meglio essere ricordati per qualcosa che per nulla».
McCurry è stato riconosciuto con alcuni tra i premi più prestigiosi del settore, tra cui la Robert Capa Gold Medal, National Press Photographers Award, e un inedito quattro primi premi premio della stampa concorso Photo World, per citarne alcuni.