I quarant’anni sono infami, diceva spesso mio padre. Nel 2010, il trentanovenne Britt Daniel, in qualità di frontman di una delle più longeve formazioni indie rock statunitensi, gli Spoon, si trova ad un bivio cruciale: egli può decidere di fregarsene dell’imminente crisi artistica che lo spegnimento delle quaranta candeline può riservargli e scrivere un disco mediocre che riceverà, nell’ordine: il plauso dei fan più intransigenti, il parziale silenzio della critica musicale mainstream e, dipende dai casi, le grida al miracolo o recensioni senza pietà di quella che, per semplificare, chiameremo ”critica indie”; oppure può sciogliere il gruppo, lavorare a progetti paralleli e rimettere su la band con qualche componente in più per tornare con un nuovo disco ben quattro anni dopo la suddetta pausa.
Britt Daniel, grazie al cielo, è una persona oculata e, una volta trovatosi al bivio di cui sopra, decide di intraprendere la seconda strada.
Dopo aver mollato la Merge Records, etichetta/terra promessa di alcuni dei migliori artisti che girano nel vostro i-pod, gli Spoon tornano a calcare le scene con They Want My Soul, uscito per la neonata Loma Vista. Suonare incredibilmente freschi, dopo vent’anni di intransigente militanza nella galassia dell’indie rock più stradaiolo e lo-fi, può spesso sembrare una chimera; invece, il rischio di risultare noiosamente ridondanti, viene arginato in modo perentorio se, alla produzione del disco, figurano persone che non ha come Dave Fridmann (che, per intenderci, collabora con Flaming Lips, Tame Impala, MGMT) e Joe Chiccarelli (Cage The Elephant, The Shins).
Come suona, allora, la formazione di Austin nel 2014?
Più risoluta, meno furiosa e sociopatica (ma questo lo si sapeva dai tempi di Girls Can Tell, del 2001), eppure ancora ostinatamente minimalista, scarna e parecchio ermetica nei confronti di ciò che accade nel panorama indie contemporaneo; i Wire si confermano ancora una volta come l’influenza più determinante nel loro sound (vedi la splendida Knock, Knock, Knock), lasciando a brani come la folkeggiante Let Me Be Mine, e la danzereccia New York Kiss, l’onere di dare nuova linfa all’ormai enorme repertorio degli Spoon.
Trentasette minuti e mezzo per dieci canzoni, They Want My Soul è un disco accessibile e diretto; i synth di Alex Fischel, nuovo elemento arruolato da poco, rappresentano la sorpresa più prorompente dell’album, differenziandolo di molto dal resto dei lavori pubblicati dal gruppo fin ora; i pezzi sono sostanzialmente orecchiabili, a metà tra i midtempo ferruginosi a cui il gruppo ci ha abituato e un certo tipo di elettronica che richiama, seppur alla lontana, gli LCD Soundsystem. Il disco, ad ogni buon conto, è parecchio trasversale, così tanto da piacere sia ai nostalgici dei tempi d’oro di Telephono, sia al fesso di turno che, essendosi dimenticato il cavo aux o, alternativamente l’ultimo disco dei Placebo, sta ascoltando in auto Virgin Radio. La qual cosa, beninteso, non è necessariamente un male, ma neppure un bene, sia chiaro.
I quarant’anni sono spesso infami, certo, però se dopo 19 anni di radicale e onorata carriera riesci a sfornare uno dei migliori dischi usciti fin ora nel 2014, be’, non devono poi essere tanto male.
Almeno credo.