V.
Stringe la sigaretta tra i denti, la bocca semichiusa, lo sguardo fisso su di me, siamo usciti insieme, il vento assume la sua corrente disinteressandosi di noi. Mi stringo nel cappotto che mi pizzica il collo, devo avere lasciato la sciarpa dentro ma non ritornerò a riprenderla, non potrei sopportare di nuovo quelle facce e quella musica ridicola, di chi cerca di sentirsi ancora come dieci anni fa, ma la giovinezza ha una scadenza, pure per le orecchie.
«Allora? Ce l’hai questo accendino?»
Io sono lì, davanti a lei, totalmente bloccato, non si tratta più di non sentire, non riesco proprio a muovermi, poi le dico che ho smesso e che devo tornare a casa, il ricordo che non rievoco mi sta facendo sudare e mi mette a disagio.
«Questo allungherà di certo la strada.»
Mi dice, non ascoltando le montagne di scuse che vanno accumulandosi nella mia bocca. Non ho ancora capito chi sia, nonostante si aggiri nella mia memoria da tempo. Una compagna di università? La ragazza del bar dove faccio colazione? Diamo così poca importanza alle persone che incontriamo per caso, senza sapere che, se solo gli avessimo dato ascolto, avrebbero potuto cambiarci la vita in un momento particolare. Lo facciamo senza volere, sperando che, poi, gli altri non lo facciano con noi, ed è il nostro peggiore incubo. È un complesso di esclusività interiore, se nessuno può sapere quello che pensi, forse, è perché sei speciale. In realtà quelli che si sentono impossibili da dimenticare sono quelli che si ricordano di più degli altri e, soprattutto, quelli più soli.
«Non ti ricordi di me, vero? Non importa, non me la prendo, non farlo tu al posto mio, siamo molto cambiati..»
Ha evidentemente compreso quello che non va in me. Quella domanda sull’accendino, quel suo modo di fare, sono aspetti che hanno quel mediocre sapore di passato, quello che hai lottato una vita per non ricordare e hai nascosto in un angolo del cervello. Un tempo ero davvero un discreto fumatore, con le dita ingiallite che si diceva “oggi è l’ultima, domani smetto” poi quel domani è arrivato davvero, d’improvviso, senza averlo scelto, come la maggior parte delle decisioni che si prende un uomo, perché le circostanze lo fanno per lui e lo avevano fatto davvero. Senza dirci nulla entriamo in un bar all’angolo di una delle strade principali che non frequentavo da tempo, io ancora non riesco a dire nulla, quello che affiora dai miei ricordi è qualcosa che non avrei voluto affrontare per la seconda volta.
«Mi ricordo ancora di quella foto che vi ho scattato, è come se la mia giovinezza si fosse fermata su quella spiaggia, voi due e il mare, i miei shorts di jeans, sento ancora il sapore di salsedine sulla sua bocca, e le sue parole stregarmi. Quanto tempo è che non ci vediamo? Dev’essere passata una vita e, forse, è davvero così».
Quello che avevo seppellito, purtroppo, ritornava più prepotentemente di quanto volessi. Ci possiamo costringere una vita a non sentire più nulla, a lanciarci in avventure che non ci lasciano niente, a fare finta di essere sicuri di sé, di non tremare più, di essere pazzi, di essere innamorati, ma ci ritroviamo inevitabilmente a fare i conti con quello che ci ha condizionato la vita, come un masso che Sisifo non vuole lasciare trasportare via dalla corrente dell’oceano. A quell’epoca eravamo solo noi tre. Io, il mio amico e la sua ragazza, che cambiava troppo spesso. I soldi che avevamo li buttavamo in ogni cosa potesse farci provare nuove esperienze, arrivammo presto alle droghe pesanti e all’infedeltà, di coppia, di generi e di noi stessi. Eravamo forti noi tre, non facevamo parte di nulla, non eravamo insieme nelle foto dell’annuario e non eravamo mai i re della festa, non ci importava, andava bene così e quello ci ha separato. C’è una foto sul mio comodino, che ci ha scattato la sua ragazza, io ho ancora i capelli lunghi e le braghe che si portavano a quell’epoca, il mio braccio cinge stretta la sua spalla, avevamo dei sorrisi felici allora, imparavamo a conoscerci, il mare dietro di noi era nulla in confronto alle nostre tempeste interiori. Lui scriveva ed aveva il fascino che dalla gioventù l’avrebbe accompagnato fino alla vecchiaia attorniandolo di donne, anche se avesse raccolto solo fallimenti. Io leggevo ogni cosa sua, me ne appassionavo così tanto da voler essere come lui, in una segreta adorazione. Avevamo vent’anni appena compiuti, era il nostro apice. C’è chi scopre la sua fede leggendo la Bibbia, Hesse o Confucio e inizia a valutare le sue azioni secondo quel metro di giudizio, io, su di lui, ci basai la mia educazione, lasciandomi trasportare dalle parole di quell’amico così profondo. Ma non era soltanto una tra le tante amicizie di interesse, c’era anche qualcosa di vero, perché la sua solitudine aveva bisogno di un discepolo e, forse, era lui ad avere più bisogno di qualcuno che lo ascoltasse che il mio orecchio ad essere riempito. I buoni amici sono quelli che ti insegnano qualcosa lasciandoti imparare dai loro errori. La fotografia è un po’ sbiadita dalla vita tempestosa di quel momento e dai traslochi che sono venuti dopo, ma è sempre lì, accanto al mio letto, vigile come un santino. Non riusciamo a togliercelo di dosso il valore mistico che diamo alla vita, è la maledizione di chi sa che una sola esistenza non può bastargli. Non avevamo aspirazioni di gloria, ma chi ce ne ha a vent’anni quando fai già fatica a viverti il presente che tempo per il futuro non ce ne hai. Fu il periodo più entusiasmante della mia vita, forse perché tutto aveva il sapore della prima volta o non ero fisso su un cambiamento. Ma come ogni cosa che inizia essenzialmente deve finire, fu così anche per quel periodo e mi cambiò così tanto da rendermi quello che sono ora, nel bene o nel male. Le persone hanno così poche cose da raccontare, se si mettessero a parlare dei sogni che non hanno mai realizzato staremmo tutti meglio, le bottiglie di vino finirebbero prima e, forse, spenderemmo meno energie ad impressionare gli altri perché si sa, alla lunga, ciò che hai tenuto dentro ti uccide.