I.
Cominciò tutto all’improvviso, senza neanche una chiamata o qualcosa che mi dicesse di esserci finito in mezzo. Forse perché la solitudine la capisci quando effettivamente caratterizza tutta la tua vita e non puoi più sfuggirla, forse perché ero arrivato a sentire il mio battito perfino in mezzo alla metropolitana alle otto di mattina. Non so come tutto sia cominciato, non so chi ero quando ho iniziato a sentirmi così, non so più, in realtà, se sono ancora. Mi sono guardato allo specchio stamattina, la mia barba di tre giorni, i miei occhi nocciola, la mia bocca sottile, nulla era più mio. Nemmeno il taglio che mi sono fatto mentre mi radevo mi riusciva a dare un calore umano, nemmeno quella goccia di sangue che stava lentamente colorando la mia faccia. Era tutta routine, il mio dopobarba, lo shampoo che mi profumava i capelli, l’acqua calda con cui mi stavo lavando. La camicia di marca presa dall’armadio serviva solo a coprire un corpo, non più una persona. Dei fasci di nervi tiratissimi che si stringevano attorno ad una distesa di pelle, da cui non usciva più calore, se non quello provocato dalla digestione del caffè della stazione in cui, però, non c’era zucchero. Le fermate si susseguono una dietro l’altra, c’è chi entra e chi esce, chi non fa spazio ad una vecchia a sedere e rimane perso nelle sue cuffie. Magari si crede pure libero, oppure crede di stare bene, di essere parte di qualcosa, ma anche a lui un giorno si sveglierà e magari nello zaino invece di metterci i libri dell’università ci mette un revolver. È il contrasto con la realtà quello che ci spezza, magari un giorno ti senti più brutto del solito e BAM! Al tuo coinquilino che ha sempre portato più ragazze di te in camera. Oppure ti hanno lasciato a casa dal call center e BAM! Spacchi la finestra di casa tua perché capisci che sei soltanto un fallito e che hai studiato vent’anni della tua vita per finire in un posto in cui ne servono soltanto due, quelli giusti per comporre un numero, e magari finisce che ti tagli pure. Non ci esci da quello specchio, lo rimandi e ci costruisci qualcosa sopra, una famiglia, un amore, ma non ci esci, è sempre lì ad aspettarti. E il punto di rottura sei sempre tu, se ti senti ancora. Ma alla fine è solo il cuore quello che non regge e fa più male di una pistola.
Nell’ufficio sono tutti un po’ stronzi, tutti un po’ figli di papà, tutti con le ragnatele sotto il collo. Non che io sia diverso. Nella sala fotocopie c’è Mizzy, la mia segretaria, che col suo fiato che sa ancora della scopata di ieri notte mi saluta e mi porta il caffè sorridente, ha del rossetto sui denti e stamattina deve avere fatto a pugni con il postino, conciate come sono le lettere indirizzate a me. Quando la assunsero per me, circa tre anni fa, credevo che il mondo stesse girando davvero nel verso giusto, mi vedevo già con la mia fuoriserie, la mia casa a due piani e gli occhiali da sole anche d’inverno, come quelli dei film. Poi siamo andati a letto insieme, e ho capito che quella che aveva fatto carriera era lei, io soltanto lo stupido a cui era arrivata. E poi quell’ufficio che sa di morte. I quadri appesi alle pareti, la musichetta classica, l’immagine perfetta di American Psycho, neanche fossi un magnate del petrolio, sono soltanto uno di quelli che non essendo riusciti a fare lo scrittore o l’artista, si è fatto raccomandare in una casa editrice o in una galleria d’arte, non fa molta differenza. Tanto a lanciare robaccia e farla vendere son bravi tutti, io no. Non che sia un completo idiota, diciamo che rientro in quel 90 per cento di gente dal talento inespresso, quelli che sono in costante ricerca di sé. Quelli che ai vernissage ti dicono: “ho passato anni a cercare la forma stilistica perfetta, tanto che in questo momento non so più che dire e ora sto ritrovando me stesso” mentre ti infilano il loro biglietto da visita nella borsetta, come un concorso a premi in cui vince chi è più disperato. Il fatto è che mi chiamano, e quel concorso di mediocrità lo vinco, sempre. E allora ho il mio ufficio, la mia posta, la mia musichetta del cazzo, i deliri di Easton Ellis, la mia segretaria e il mio taglio sul viso. Il viso di chi? Magari il tuo, o quello di tua moglie, della tua fidanzata, del tuo professore grasso che non sa nemmeno come ti chiami, o quello del tuo capo. Di quello a cui ho appena sparato un colpo di revolver, perché aveva troppo talento e meritava di diventare una leggenda, e le leggende si sa, devono morire giovani. Invece sono seduto alla mia scrivania, la sedia in pelle che mi fa dondolare, mi chiamano sulla due, una voce femminile, di quelle che sanno come parlare, di quelle che sono così perfette che te ne innamori anche senza averci mai parlato da solo, di quelle a cui ti mostri forte e che poi se la fanno con un idiota, quelle di cui vado matto. Fissiamo un appuntamento alle due, in uno di quei posti artistici fuori città di quelli con i libri harmony e le enciclopedie negli scaffali, e la birra che costa di più perché la bevi sotto al poster di Hemingway, se fosse stato Bukowski ti facevano pagare pure la depressione del cameriere. Mizzy entra con il suo sguardo beffardo e mi dice della riunione con i ‘capi’, evviva, le rispondo lei sorride e se ne va. Mi odia, come io odio lei, perché ha puntato sul cavallo sbagliato e me lo fa pesare. Nella sala riunioni ci sono tutti, i gran pascià seduti sulle loro poltrone con davanti un cumulo di appunti scritti con la Mont Blanc delle loro mogli e gli apprendisti con la lingua umida che basta a pulire i pavimenti del Louvre. Il relatore, uscito da non so quale cartone, ha gli occhiali squadrati e la faccia da messia, e alle sue spalle un grafico che più che indicare le vendite indica il calo di attenzione degli spettatori a partire dal primo momento in cui aprirà bocca. Entra uno come me, di quelli che hanno capito che da quell’ufficio non ci usciranno mai, se non con la bara, ancora bello e col sorriso arrogante di chi farà carriera, di chi punterà la sua vita nel fare il lavoro che crede di essersi scelto. La sua camicia di marca, il suo dopobarba, il suo taglio sulla faccia, anche lui, come una specie di marchio non detto. Si siede accanto a me, a fare il gemellino, accanto ad un inferno che non sa di conoscere meglio delle sue scarpe di pelle e dei suoi calzini bi color, che scopre incrociando le gambe. Ha già la saliva in ebollizione, pronta a fare domande di cui nessuno sentirà nemmeno una sillaba, ma la masturbazione non te la paga la mutua e ti basta così. Sembra che licenzieranno qualcuno, ci si guarda già in giro, si contano mentalmente le lettere di raccomandazione, a chi toccherà questa volta? All’ultimo non ne erano bastate tre, la crisi sbanca pure il papà e la sua Maserati. Gli occhi del gemellino già sono sbarrati, si vede che è finito in nomination, ma alla fine sarà una gran stretta di mano, di ringraziamenti per l’occasione data anche se poi dovrai rifare tutto da capo, e via con le lettere, e via con le preghiere e gli spergiuri, la competizione infinita per una poltrona su cui c’era seduto qualcun altro, questa è la crisi, essere costretti a pensare che quel posto sia più adeguato per te che per un altro, anche se già altri, da posti così, ti avevano buttato fuori. E così è stato per me, e anche per Mizzy, e per quella robaccia che c’è dentro al mio ufficio. A quello che ho sostituito è andata meglio, era morto prima di accorgersi che qualcuno l’avrebbe scomodato. Gli uffici cambiano sempre, sono le persone dentro che non cambiano mai, questo è il problema. E c’è un’insoddisfatta Mizzy davanti ad ognuno di voi, nelle vostre case, nei circoli esclusivi, all’ingresso delle discoteche che vi chiede: “Sei davvero tu il migliore esemplare che la razza umana ha prodotto?”. La riunione finisce in un applauso beffardo pieno di falsi auguri e di domande sulla vita privata di chi ti sta davanti, più per sentirsi fare la domanda che per ascoltare la risposta. Io me ne vado senza aver aperto bocca, lasciando il gemellino ancora seduto pietrificato e con le calze che hanno assunto un solo colore acre, quello del sudore che gli imperlerà la faccia dopo la sua striscia quotidiana nei bagni per le signore, ci siamo passati tutti. Me lo vedo già lì, a chiedere aiuto allo specchio che, forse, gli avrà detto finalmente che non conta nulla pure lui. Se è vero che rompere uno specchio costa 7 anni di disgrazie, infrangere i sogni di un uomo comporta una bocca in più da sfamare per il welfare state.