La capacità provocatoria di un’opera d’arte è proporzionale al significato insito nella provocazione stessa. Shame è una pellicola girata in maniera superba, tecnicamente egregia, con atmosfere e scelte narrative pregevoli, particolari mai casuali: è film decisamente provocatorio per la natura alquanto esplicita dell’esposizione dell’ossessione del protagonista della storia. Brandon è un trentenne di successo con un lavoro appagante che vive a New York, e per evadere dalla ripetitività quotidiana ricerca in modo maniacale di sedurre le donne per avventurarsi in incontri di una notte. Potrebbe sembrare il profilo di un qualsiasi dongiovanni allergico ai rapporti impegnativi, di un playboy sbruffone e narcisista: invece Brandon è un personaggio emotivamente e psicologicamente disturbato, un sessuomane che è ossessionato dal rapporto fisico ma fine a sé stesso, non come dimostrazione di un sentimento o appagamento simbiotico del piacere proprio e della persona amata, anzi paradosso vuole che appena entra in gioco l’affetto per una donna l’uomo diventi vittima di impotenza fisica e comportamentale. Brandon non è un depravato né un molestatore, è un sesso-dipendente che si masturba quotidianamente nei bagni dell’ufficio e sotto la doccia, che quando non trova occasioni di incontri nei locali o un approccio non va a concludersi come vorrebbe ripiega con le prostitute, frequenta privè per omosessuali e accumula quantità notevoli di materiale porno oltre a scambiarsi effusioni in internet ogni notte tramite web cam; eppure nessuno sospetta minimamente di questa ossessione, la sua esistenza prosegue metodica tra ufficio e bevute con colleghi di lavoro che lo vedono un uomo come tanti, in carriera, di bell’aspetto e senza voglia di sposarsi. Nemmeno la sorella che vive a Los Angeles e lo incontra sporadicamente sospetta del disturbo di Brandon, ma sarà proprio la sua presenza, la forzata quanto improvvisa convivenza con la ribelle e problematica personalità della ragazza a mettere in crisi la linearità abitudinaria di quella mania.
Shame è un film drammatico, letteralmente il significato del titolo è “imbarazzo”, “vergogna”, ma il senso della storia travalica la forza di queste parole che assumono importanza nel quadro generale dello stato esistenziale del protagonista che in realtà non pensa di potersi trovare in imbarazzo perché non crede possibile la sua ossessione venga scoperta, eppure nel suo essere anonimo pare vivere costantemente vergognandosi di sè. Il ruolo della sorella diviene fondamentale per la crisi di coscienza di Brandon, e il pensiero che torna ad esperienze condivise, ad una condizione familiare passata destabilizza le sue certezze maniacali. Come ha detto il regista, la sessuomania è un mezzo per la trama che necessitava di una dipendenza, ma poteva riguardare il cibo o qualsiasi altra cosa; certo è che nell’era moderna le patologie riguardanti la sfera sessuale sono aumentate soprattutto a livello psicologico per una sovraesposizione dell’argomento (vedi internet), e l’incapacità di rapportarsi con le donne in maniera affettiva o comunque convenzionale ha moltiplicato l’esistenza di situazioni come quella narrata nel film.
Steve McQueen ha girato una pellicola per nulla popolare e non solo per la materia affrontata, ma anche per lo stile utilizzato, con una paradossale quanto apprezzabile raffinatezza di immagini accompagnate costantemente da musica sublime, come ad esempio quella di Bach. La riuscita delle scelte complessive del regista per Shame trova l’esempio più lampante nei protagonisti: ad interpretare la sorella scapestrata e bisognosa d’affetto è una bravissima Carey Mulligan che seduce e commuove come dimostra l’esecuzione in chiave struggente del classico New York New York.
Il protagonista Brandon ha le sembianze di un eccezionale Michael Fassbender che ha meritato la CoppaVolpia Venezia per questa interpretazione: divenuto ormai attore feticcio per McQueen (già presente nel suo esordio Hunger purtroppo inedito in Italia è stato precettato per la prossima fatica del regista al fianco di Brad Pitt) Fassbender affronta il difficile ruolo del sessuomane con una recitazione molto fisica ma non esclusivamente nel senso che il disturbo del suo personaggio potrebbe far pensare; Brandon con lo sguardo e con i movimenti può tanto sedurre che esprimere disagio, la normalità di un uomo prestante e inflessibile diventa voracità lussuriosa di un disadattato, la rabbia per il crollo protettivo segregato nella sua ossessione diventa un emozionante pianto per la consapevolezza di poter finalmente condividere il proprio dolore senza “vergogna”.
Immagini piuttosto esplicite di alcune delle sequenze dei rapporti sessuali potrebbero infastidire chi non trova appropriata e necessaria la sovraesposizione e la descrizione scenica di determinate azioni, e sarebbe lungo anche se mai inutile il discorso su ciò che in realtà più dovrebbe impressionare, scandalizzare tra sesso e violenza nei film; ad ogni modo Shame non ha nulla a vedere con il cinema porno, anzi chi si aspetta qualcosa di simile rimarrà senz’altro deluso.