Si è conclusa da poco la seconda edizione di SetUp Art Fair di Bologna che, dopo l’esperienza dell’anno scorso, ha voluto replicare un appuntamento quanto mai interessante, arricchendosi di nuovi contenuti e progetti. Ma SetUp non è soltanto una fiera, dove acquistare opere di giovani artisti o dove farsi notare. Dal prezzo d’ingresso contenuto, dalla distribuzione inusuale delle stanze al piano superiore della stazione degli autobus che, di solito, sono abbandonati, questa esposizione si delinea come la possibilità per vedere, e sentire, la parte bella del paese, raccolta in pochi metri quadrati. 29 gallerie da tutta Italia, 8 progetti paralleli (tra cui l’esposizione di alcune opere di Ryan Mendoza) e 4 premi per gli artisti e curatori delle installazioni, confermano il carattere più profondo di un semplice ritrovo fra venditori e acquirenti.
Quello che ti colpisce, tra le molte cose, è il fatto che ce n’è di tutti i gusti e generi. Si passa dalle installazioni più minimaliste ai progetti sulla natura a un solo muro di distanza. Non c’è la pesantezza di un percorso museale per epoche, la commistione è generale e senza un senso nascosto da scovare. Ci sono, ovviamente, pregi e difetti, cose che ti piacciono e cose che ti lasciano perplesso. In mezzo a queste due direzioni c’è sempre la solita spada di Damocle a pesare sulle teste degli artisti, circa il senso di alcune scelte che non possono, per come sono fatte, attirare nuovi visitatori e creare una nuova idea di arte. Ma il discorso circa l’utilità, e le scelte artistiche, non ha ancora fatto il suo tempo, e meriterebbe un discorso più approfondito e un luogo adatto. O, forse il posto era giusto, solo che alla serata di inaugurazione gli artisti erano ancora troppo timidi, nascosti o troppo agitati per poterci pensare. Che, poi, è anche vero che ognuno utilizza il mezzo che crede più consono per esprimersi, l’importante è che non si cerchi di impressionare e basta. Ma i portafogli erano pieni, gli occhiali dei critici da salotto continuamente appannati e c’era anche un bambino che correva da una parte all’altra dicendo quello che pensava sulle opere, e non era mai un giudizio troppo positivo, beata infanzia.
A colpirci di più sono state, da un lato, le opere che hanno raccontato una storia. Il progetto fotografico BDSM di Francesco Cabras (per la galleria De Chirico di Milano) ci racconta le storie di un locale di pratiche sessuali estreme, l’uso del bianco e nero e i forti chiaroscuri ricreano l’idea buia che ci facciamo di quelle realtà più che, probabilmente, dalla sua reale presenza. Nelle sue foto colpiscono tanto i silenzi, la sottomissione, la necessità di un corpo, diventato oggetto delle proprie fantasie al prezzo di un biglietto, e l’accuratezza nel descrivere ogni momento, dalla conversazione alle corde che tagliano il corpo dei partecipante,
consenzienti o meno. Ma l’arte raccoglie anche l’interiorità, ed è forse la storia più bella. Pregevoli, in questi termini, le opere portate da Piccola Galleria. In un percorso scandito dalla serie Sturm und Drag (Vania Broccoli) alle tempeste di Sergio Padovani, fino a sfociare nell’iperealismo in cui la descrizione iconica viene modernizzata al linguaggio del ghetto di Saturno Buttò. Ma sono le opere di Lorenzo Puglisi e Filippo Robboni a esprimere meglio la disgregazione, o la semplificazione totale, dell’animo umano. Ci sono poi le descrizioni di una “Realtà possibile” di Veronica Botticelli per AnnaMarra Contemporanea che ricostruisce i luoghi abbandonati dalle speranze del nostro paese, comprese quelle dentro le lettere dei ministeri, che diventano tela per le opere stesse, trasformate in occasioni di disparità sociale via poste italiane.
SetUp Art Fair stupisce, rallenta, ti blocca, ti butta giù e poi risale. Ma la sua presenza nel nostro paese è sintomo di qualcosa, della possibilità di costruire e costruirsi artisti, quelli veri, con persone che puntano sul tuo talento. Un’iniezione di speranza.