Quando un’opera cinematografica porta a discussioni, a prescindere dalla tematica, sul gradimento avuto tra gli spettatori così come tra i critici ha in ogni caso raggiunto uno dei suoi obiettivi, quello della curiosità strisciante, della visibilità assicurata. Per un film del regista del pluripremiato Gomorra, tratto dal bestseller di Roberto Saviano forse non serviva tutto questo chiacchiericcio, la competizione tra i “capolavoristi” e i”floppisti”, due neologismi che mi sono venuti in mente leggendo recensioni e commenti di Reality. Matteo Garrone ha fatto un film triste, tristissimo, una sorta di epitaffio al Belpaese; l’Italia divenuta regno dell’apparenza che campa di sotterfugi e di illusioni, badate bene illusioni non sogni, sono due cose diverse e le prime possono condizionare l’andamento di una vita e di un momento storico al contrario dei sogni che hanno bisogno di una trasfigurazione concreta per avere fondamento. Lasciando psicologia e filosofia a chi ne ha più titolo, mi soffermerei innanzitutto sulla trama di Reality: Luciano è un pescivendolo napoletano che per tirare avanti più che dignitosamente, al di sopra delle proprie possibilità, organizza con la moglie piccole truffe; è dotato di un’innata simpatia che travolge chiunque assista alle sue performance recitative, fatte di imitazioni e travestimenti. Un giorno spinto dai familiari fa il provino per partecipare alla trasmissione Grande Fratello, e da quel momento il suo modo di percepire la realtà cambia totalmente. Una storia vera, che ha attirato ed incuriosito Matteo Garrone al punto da girare un film che presentato al Festival di Cannes ha avuto lo stesso riconoscimento che ebbe Gomorra, il Grand Prix della Giuria.
Il racconto di Reality si avvicina all’iperrealismo, ma per quanto possa affascinare il termine che contraddistingue una corrente pittorica mi tocca precisare che la mia definizione per il film non è un complimento: l’iperrealismo è quel metodo che porta i pittori a dipingere soggetti fotografici, come si facesse un quadro di una foto, ma amplificandone le caratteristiche meno visibili. Reality è un paradosso, perché è un’opera tentacolare che conferma lo stato non buono del popolo italiano, delle sue fissazioni moderne, dell’assoluta necessità di raggiungere la popolarità mandando in malora Warhol e i suoi 15 minuti di celebrità, facendo il possibile per camparci vita natural durante nella fama. Dov’è il paradosso? Guardando il film sono in pochi quelli che pensano al popolo italiano tutto guardando il protagonista e i suoi familiari (e forse sono esclusivamente gli spettatori stranieri a pensarlo), la fotografia di uno stereotipo è stata riportata in modo amplificato nel “quadro” filmico: l’ignorante, meridionale, truffaldino ma pure simpatico e bonaccione come vittima predestinata del regno delle illusioni che governa l’opinione pubblica, la quotidianità generale attraverso i media, o meglio la televisione.
Garrone ha precisato di non aver voluto fare un film sociologico o di denuncia, eppure sarebbe stata differente una ricerca in tal senso, avrebbe avuto maggiore forza una lettura moralistica della vicenda; per quanto possa far venire l’orticaria a qualche solone della critica italiana i film con una morale ricercata, non imposta, sono quasi sempre i migliori. Sarebbe ingiusto nei confronti di chi ha scritto e girato Reality tacciare di razzismo l’opera, non è plausibile una lettura del genere, anche perché da come hanno specificato l’intento era di “seguire dei personaggi, comprenderli nei loro aspetti umani senza giudicarli, anzi cercando un’identificazione”, non riuscendoci appieno a mio parere ; mi limito a criticare la scelta narrativa di una storia che è potente come emblema, uno schiaffo in pieno volto all’italiano, non solo a quello medio, al proletario e al sottoproletario (se ancora è possibile racchiuderci in tali categorie) ma ad ogni classe sociale della popolazione italiana.
Quindi Reality è un flop cinematografico?
Tutt’altro: un’opera così straordinaria a livello tecnico non può essere un flop. Matteo Garrone è uno dei più bravi e originali registi della scena italiana ed internazionale, utilizza la macchina da presa in maniera eccezionale e se ne ha conferma anche in Reality: piani sequenza come quello introduttivo incorniciano una pellicola in maniera elegante e misteriosa, le riprese con camera in spalla che rimbalzano dai primi piani ai campi lunghi rendono lo spettatore partecipe dell’azione scenica, i dialoghi, i battibecchi, gli scambi tra i personaggi abbattono visivamente la finzione cinematografica portandoci di fianco a loro grazie alle riprese, la fotografia del compianto Marco Onorato è un valore aggiunto per immagini che non hanno definizione e cromatismo lineare ma contrasti in chiaro scuro o colori sgargianti e accecanti; la musica di Alexandre Desplat è spaventosamente perfetta, perché la sonorità da giostra per bambini ripetuta in “loop” (ciclo continuo) con pochi cambiamenti melodici crea angoscia, esattamente come la trama. Il montaggio di Marco Spoletini poteva osare maggiormente anche se la difficoltà in un film del genere era eliminare momenti di stasi che in realtà descrivono con precisione le situazioni; le scenografie di Paolo Bonfini hanno esemplificato il significato del film vuoi con il rifacimento della casa del Grande Fratello vuoi con l’utilizzo di una delle più belle Ville Vesuviane che ci sono nel Miglio d’Oro della provincia di Napoli, Villa Pignatelli a San Giorgio a Cremano. Il significato è esemplificato da una meravigliosa Villa decadente in cui abita il protagonista, l’italiano che abita il Belpaese, e dagli studi televisivi o dalla casa del Grande Fratello, o dagli spazi di un Centro Commerciale, o da un ambiente per cerimonie caratterizzati dalla luminosità dei colori resi magnifici sia dalla condizione del protagonista che dal filtro dell’illusione mediatica, liturgica o opulente che sia, in poche parole finti, abbaglianti e ricattatori.
Una delle principali caratteristiche che rendono Matteo Garrone un grande regista sta nel girare i film in sequenza, così come si vedono al cinema, l’inizio è esattamente la prima scena a cui la troupe ha lavorato così come il finale segna la conclusione della lavorazione sul set; e questo particolare si nota, eccome, in termini principalmente interpretativi rendendo gli attori legati simbioticamente ai loro personaggi sviluppandone le maschere e le personalità man mano che vanno avanti le riprese. E gli interpreti sono uno dei punti di forza di Reality: il gruppo di attori teatrali napoletani è formidabile per i tempi e per l’autenticità, da Loredana Simioli a Nunzia Schiano, da Graziella Marina e Nando Paone, da Nello Iorio a Giuseppina Cervizzi e Rosaria D’Urso. Addirittura superlativo il protagonista Aniello Arena che oltre alla capacità emozionale e alla forza mimica riesce a trasmettere un senso di impotenza per la condizione che vive il suo Luciano, quasi non possa farci nulla per quello che pensa gli stia capitando, e costringe lo spettatore ad avere pena per lui…anche per questo l’identificazione di cui ha parlato Garrone io non l’ho vista per nulla riuscita in Reality.
Insomma: Reality è un capolavoro o un flop?
Nessuno dei due; è un’eccellente prova cinematografica di un gruppo di artigiani della Settima Arte e di bravi attori di teatro diretti da un ottimo regista, ma è anche un film deludente e approssimativo sotto l’aspetto narrativo.
Continuate pure a dibattere.