Di primo mattino, qui, a turno a ovest o a est da te, mentre ascolto un pezzo a caso su soundcloud, e gli uccelli fischiettano come se fosse una gran festa fuori, penso chissà se le cose il tempo le cambia. Penso ai sentimenti, fumando una sigaretta e sorridendo nel pensare alle casualità, ripenso a quella sera tarda e lontana che pioveva forte ed eravamo sotto due ombrelli diversi. Ripenso a tutti i percorsi immaginari, alla sete, alla solitudine, alla pizza fritta. Mi soffermo sulla tua bocca in uno spiazzale urbano, coi fari delle auto addosso: alla traiettoria immaginaria delle mie mani vuote. Mi piego dentro i tuoi capelli in un tramonto estremo, mentre l’acqua della doccia tira ancora rumore. Ricordo le parole che mi venivano fuori violente, e nolenti. Lo avevo deciso dal mio lato dell’ombrello, poco prima di Eloise Sfankignak che ti avrebbe cantato funk addosso, di passeggiare con te dentro i primi soffi caldi della stagione, ma restai immobile, con la camicia mossa dal vento, tutta contratta. Senza che tu lo sapessi avevo già un incanto serbato nel taschino della giacca a vento, e correvo di strada in strada felicemente, come se conoscessi il futuro.
Ripenso: chissà se le cose le cambia il tempo, e sono consapevole che tutto è in continuo movimento. Il mare mosso che torna ad essere mare mosso, tu che torni continuamente a muovermi, le paure – sempre le stesse – che mi salgono alla gola, a volte prendendo la forma di una strana disperazione, altre volte felicità a dismisura, lunghi coltelli affilati. Eppure non riesco a togliermi dalla testa quei due ombrelli avvolti nella pioggia, che non ricordo di che colore fossero ma so bene che ci coprivano da un acquazzone imminente, e lo so perché mi arrivò dopo poco addosso mentre passeggiavo, e mi bagnò le scarpe e i calzini e i capelli, ma io ridevo. Forse è stato tutto frainteso dai nostri quattro occhi fissi, ognuno solitario a lui stesso, ognuno esteso e contenente mondi propri e diversi. A volte disgraziati. Forse non riesco più a tornare a casa, a ridere con la tua risata, a deridermi per la strada, a portarti il tempo mentre mi porti il tempo. E il tempo che si porta via da noi prudente.
E’ mattino presto, sento che è successo qualcosa di schiacciante nell’aria da allora, e che non tutto è perduto. Del resto i nostri occhi sono rimasti gli stessi, e sappiamo ancora sorridere. E rivedo l’ingenuità di quella serata di pioggia, che sarebbe stato bello assecondare subito per intero facendo l’amore. Di queste mancanze e di questo frastuono sono colpevole. Anche le scimmie possono essere colpevoli. Qui nel profondo della valle urbana aspettavo il tuo corpo addentrarsi dentro il mio, distruggendo la parole peccato, ma ci separava l’universo – qualche volta, o la nuova leva cantautoriale italiana. Eppure mi è riuscito di vederti, soffice, qualche notte in sogno.
Eravamo a Dakar, con le camicie aperte e gli occhiali da sole, dentro una jeep scura mi fermavo ai piedi di un bambino per regalargli un qualcosa che ti strappavo di dosso. Tu ti opponevi, io ridevo, a notte fonda ballavamo, bevevamo, cantavamo.