Nei giornali ne parleranno come della crisi del ’29 o dei suicidi dopo lo scandalo dei subprime, ma in realtà non gli daranno troppo spazio, perché la morte silenziosa è molto meno interessante rispetto a questa lenta agonia dei figli illegittimi degli anni zero. Destinati a mantenere i propri genitori prima ancora di poter imparare a camminare, perché zero è il destino di chi non c’è, è il numero dei contratti a tempo indeterminato e di chi si fa rubare le idee, in nome di una gratitudine giustificata dal farsi curriculum prima di poter contare in questo mondo. Avanguardisti di una guerra generazionale non dichiarata e senza successo, come giocare in nove contro il Brasile di Pelé senza riserve davvero spendibili e l’arbitro contro. Perché non c’è partita fra giovani diventati terzo mondo e l’imperialismo di una classe dirigente, ma anche perché gli allenatori, o i maestri, si sono tutti dimessi e nessuno ha fatto in tempo a imparare. Dilettanti creativi, dai pantaloni arrotolati per la strana moda idraulica, senza accorgersi che l’acqua arriva alla gola e devi imparare un modo per non affogare.
Protagonisti, loro malgrado, di un’epoca senza spettatori e col palco già pieno di chi non sa cedere il proprio posto. Eredi di un fallimento testamentario di chi non gli ha mai insegnato a essere se stessi, troppo pieni di facile successo per convincersi di dover lottare per conquistare qualcosa, quanto schiavi della certezza di non poter davvero fare la differenza. Ma non manca solo il lavoro per realizzarsi, importa di più quanto ti credi in grado di contare e con le gambe stanche non riescono a reggere il sistema come dovrebbero, ma forse è più la sensazione di non importare a nessuno a buttarli giù. Troppo convinti di non meritarsi quello che gli spetta per non accettare le magre consolazioni che gli lasciano. Fragili, deboli, dagli occhi abbassati davanti a chi ci è riuscito, hanno abbandonato il campo di battaglia ancora prima di poter essere colpiti e non sono diventati soltanto vittime ma anche carnefici di se stessi, indecisi sul da farsi, come avvolti da squali non sanno più se valga la pena lanciare l’amo. La paura del confronto li ha fatti smettere di leggere, ma cercano di scrivere, non vanno più nei musei preferendo disegnare da soli, non ascoltano più le storie del passato per potersi lamentare del presente, ipnotizzati da cantastorie su di un pulpito che dicono domani andrà meglio, la crisi finirà e ci sarà spazio per tutti e saremo tutti ugualmente felici. Ma l’assenza di maestri gli ha tolto la possibilità di tradirli, rendendoli figli di nessuno a brancolare nel buio, lasciandosi a vicenda nella solitudine e a darsi per scontati. Giovani arrabbiati perché non si meritano la nebbia in questo costante inverno, costretti a riempire gli aerei dei loro anni migliori alla ricerca di un’ipotetica città dell’oro oltre i confini nazionali. E partono sconfitti, testa bassa quasi ad aver tradito il proprio paese, e accettano tutto quello che gli arriva. Oppure non si muovono mai, innamorati del mito della provincia felice, moglie marito due figli e un cane, lavoro stabile e casa a schiera, ma quei sogni che per i genitori erano certezze sono diventati quasi irraggiungibili, e quei nonni che un tempo invidiavano gli anni dei loro nipoti piangono perché, ora, sono i nipoti a invidiare loro, quelli della pensione e delle nozze d’oro. Nonostante la guerra, che li ha resi più vicini, o la povertà che li ha trasformati più umili, perché l’impossibilità di pensare a se stessi li ha resi più forti.
La generazione degli anni zero, la prima ad avere già rinunciato a essere meglio dei propri genitori, che gli hanno insegnato che essere giovani significa divertirsi e basta e poi a quarant’anni magari crescere. E poi che non sono mica tutti così, ma alla fine anche loro sono costretti a cedere, quando non raccolgono gente intorno a sé, o sono sempre con i soliti quattro che non hanno ancora smesso. La storia del gatto che si morde la coda in un parco svuotato di bambini, la paura di dare al proprio figlio un destino come il proprio li ha resi sterili, ma se non è la sfiducia allora è l’impossibilità di mantenerli o di pianificare un futuro insieme. E non ci sono più storie da raccontare in provincia, perché se ne sono andati tutti e, spesso, non tornano più. Affamati dal mito della grande città, a riempire le metro alla mattina senza guardarsi negli occhi, silenziose morti bianche su una strada senza perché.
I protagonisti senza luce, abbandonati dalla politica che li usa come facciata ma poi se li dimentica, costretti ad attendere il cambio inevitabile della vecchiaia per potersi sentire finalmente giovani quando sarà troppo tardi, persi in un mare di raccomandazioni e in bilico sul dovere morale di andare contro corrente, traballanti all’idea che il giusto prevalga nel paese dell’abitudine. Coraggiosi capitani di una nave senza direzione, per chi resta e per chi se ne va, al ramo d’ulivo della colomba non saprebbero più cosa credere. Se la terra o il naufragio, quale a loro, equilibristi dal precario equilibrio, convenga accettare. Giovani senza attese lavorative e speranze, che si sono bruciate nella pausa fra la chiusura degli occhi e l’inizio dei sogni.
(La grafica è di AN http://annagostini.tumblr.com/)