“Non tutte le albe sono uguali”. Questo devo aver pensato all’alba del 4 giugno, quando, mentre il set di Scuba finiva di incendiare il Ray-Ban, il Parc del Forum si svuotava lentamente e dietro ai grossi pannelli solari che sovrastano il Pitchfork si intuiva una timida alba. È stato un pensiero fugace, a tratti commovente, che mi ha riportato alla memoria tutti i chilometri fatti, tutti i concerti visti durante 3 giorni di festival, tre giorni in cui il Parc ha rappresentato, per tutti gli spettatori del Primavera Sound Festival, la casa ideale. Certe storie si inizia a raccontarle dalla fine, serve a prendere la giusta distanza, a misurare l’emozione di descrivere un’emozione. È una storia che inizia in una Barcellona infuocata dal sole, che quasi sembra agosto, invasa come ogni anno da giovani di tutto il mondo, con le maglie dei gruppi, con il loro entusiasmo e i loro braccialetti colorati. Inizia dalla grande festa di apertura all’Arc de Triomf, che vede alternarsi sul palco The Wedding Present, a risuonare “Seamonsters”, i classici The Walkmen, a presentare il nuovo “Heaven” e degli scatenatissimi Black Lips, impegnati a far pogare fino al collasso anche i pali presenti nella piazza. Continua all’Apolo con i live più intimi di Chairlift, Beach Fossils e Kindness… ma questo è solo un antipasto, domani si inizia a fare sul serio.
Giorno 1
Si aprono finalmente i cancelli del Parc del Forum, il mio primo giorno inizia alle 19, dopo circa un’ora di fila per ritirare il braccialetto, la direzione è il Pitchfork, dove si esibiscono i danesi Iceage: noise ai limiti dell’hardcore per questi ragazzini ancora troppo acerbi per un palco così grande, che nonostante la foga e la chiara voglia di suonare, finiscono per dimostrarsi poco all’altezza della situazione. Molto rumore per nulla insomma, ed è tempo di spostarsi dagli ottimi Archers Of Loaf, che al Ray-Ban presentano il loro indie rock selvaggio e graffiante dai colori degli anni Novanta. Ed è proprio dai colori di quegli anni che arriva la prima attesa meraviglia di quest’anno, il ritorno degli Afghan Whigs ad infiammare il San Miguel con la loro musica senza tempo, regalando un’implacabile lezione di stile, tra rock’n’roll sudaticcio (I’m her slave e Gentlemen) e ballate rauche (When We Two Parted). Dulli e soci sono in pienissima forma e presentano un live pieno di classici, fatto di equilibrio e perfezione, rabbia e controllo. Il primo vero impeccabile concerto dell’anno. Nemmeno il tempo di pensare all’accaduto, che bisogna mettersi in cammino per il palco più lontano, quel Mini che sarà croce e delizia di tutti, perchè sede di concerti magnifici, ma completamente dislocato rispetto all’area principale del festival. È tempo di scelte, bisogna sacrificare e sacrificarsi, non avere paura di mettere da parte il ventricolo sinistro per seguire quello destro, mi lascio alle spalle i Mazzy Star e i superbi Mudhoney, per le canzoni per cuori infranti dei Death Cab For Cutie, che tirano fuori gli artigli e riescono a coinvolgere la marea di gente accorsa per vederli. L’emozione sale quando recuperano da “Transatlanticism” (il loro album che preferisco) due classiconi come The New Year e The Sound Of Settling. La vita del Primaverista, tuttavia, è un’eterna corsa e bisogna scappare perchè al San Miguel (circa un quarto d’ora a piedi, con la folla) suonano i Wilco e io non posso assolutamente perderli. Passando davanti all’ATP, mi assale il ruggito dei Mudhoney, e il pubblico pogante e in visibilio, mi ricorda quello che, ahimè, mi sono perso. Ma il gioco è anche questo, non avere rimpianti è la regola fondamentale. Pochi minuti dopo ci penseranno Jeff Tweedy e soci a consolarmi dai microrimpianti. Il loro concerto è a dir poco estasiante. In circa un’ora e venti minuti condensano tutto quello che è la musica con la M maiuscola: dal folk, al rock d’autore, fino a piccole incursioni elettroniche, snocciolano brani dall’ultimo “The Whole Love”, ma anche dai vecchi successi, non si può trattenere l’emozione sugli assoli di Impossible Germany e su tutto il San Miguel che canta in coro Jesus, etc. Non si riesce nemmeno a condensare l’emozione che ricomincia la gara podistica tra il palco principale e il lontano Mini, ci sono The XX ad attendermi. Il trio britannico presenta i brani del nuovo disco in uscita, sensibilmente influenzati da Jamie XX nella produzione, ed esegue gran parte di quel piccolo capolavoro di minimalismo che è il loro album d’esordio. Le canzoni risultano riarrangiate in chiave più electro, i tempi dilatati e i ritornelli spesso sono lasciati sospesi nell’aria (come in Crystalised). Ad ogni modo, il set riesce e lascia l’acquolina in bocca mista a perplessità per i nuovi brani che non prendono subito il pubblico primaverese. Pazienza, al San Miguel c’è l’occasione di uscire dal torpore dei suoni ovattati che ci ha invaso: i Franz Ferdinand da Glasgow hanno voglia di far ballare tutti e di dimostrare di essere una live band con i controcoglioni. Si salta e si suda sulle chitarre frenetiche di Darts Of Pleasure e Give Me Tonight. Il tempo, però, è tiranno e dopo una scoppiettante The Dark Of The Matinée, mi tocca abbandonare il campo per tuffarmi nel trip fumoso degli Spiritualized. Praticamente un concerto gospel in acido, da seguire con gli occhiali da sole per non essere trafitti dalla luce accecante della loro musica, dalla velvettiana Hey Jane, alle atmosfere più intime e psichedeliche. L’emozione di Ladies and Gentlemen, We are Floating in the Space e lo scoppio di energia di Come Togheter, in cui Jason Pierce piazza tutto sè stesso. Un live set intenso, tanta musica e nessuna parola. Ma non è ancora finita, si può fare di più, ci si può ancora trascinare, stanchi, al Ray-Ban, per consumare le ultime forze rimaste con l’elettronica di John Talabot e il bellissimo dj-set di Erol Alkan (da Donna Summer fino ai Metronomy).
È tempo di alba, la prima al Parc…con i piedi che ti fanno male e la felicità sui volti, con la voglia di risvegliarsi prima possibile, perchè domani è un altro giorno e si ricomincia, con una nuova energia.
Giorno 2
C’è una seconda regola da tenere a mente quando si viene al Primavera Sound: preparate le scalette, fate i vostri programmi, sognate di risolvere le coincidenze dei gruppi sfidando il dono dell’ubiquità, ma tenete presente che nessun programma verrà mai completamente rispettato. Per qualche strana ragione pertanto, non riuscirò ad essere al Forum in tempo per gli Other Lives, poco male, con tutta la roba che c’è oggi, un piccolo sacrificio lo si può anche fare. La prima scelta della giornata è impopolare: metto da parte la storia per il contemporaneo, lascio i Chameleons al Ray-Ban e vado al Pitchfork a vedere cosa combina Dirty Beaches. Spesso le scelte coraggiose si rivelano una delusione e il concerto si piazza tra uno dei peggiori del festival. Le piste registrate rendono l’esecuzione poco naturale e non riescono a trasferire l’emozione noir disegnata nel disco. Probabilmente in un locale chiuso Dirty Beaches avrebbe fatto di meglio, nonostante ciò, Lord Knows Best cattura la mia emozione e mi rinfranca un po’. Si cambia palco (che novità eh?) per immergersi nelle atmosfere surf dei Girls, che, per l’occasione, addobbano le aste dei loro microfoni con variopinte composizioni floreali. Il loro live è coinvolgente e solare come pochi. Il pubblico salta e si diverte, l’atmosfera si riscalda, tra Alex, Vomit e Lusf For Life, la malinconia delle loro melodie e l’immediatezza dei loro ritmi. Giusto un passaggio all’ATP per gustare il finale del set degli I Break Horses, che mi tocca farmi squarciare il cuore con quello che risulterà il live più impegnativo del Primavera. Al San Miguel suonano i Cure e per tre ore il festival è come immobilizzato. È bello quando, chiudendo gli occhi vedi passarti l’intera vita davanti, capita quando a invaderti dal palco, sono brani che, nel bene e nel male, ti hanno segnato e arricchito, che non puoi non commuoverti se senti Pictures Of You o Lovesong, puoi solo farti trafiggere in silenzio, gustando l’emozione come fosse il tuo cibo preferito. Una scaletta impressionante che mette in fila tutti i classici pop della band, alcuni brani delle origini (da A Forest a One Hundred Years) e pezzi nuovi. Un concerto mastodontico, mai sotto le righe, anche se alcuni momenti, indubbiamente, risultano pesanti data la lunghezza del set. Ad ogni modo il concerto dei Cure sarà un’esperienza sicuramente indimenticabile. Cambio di registro e di emozioni, al Mini è appena iniziata l’esibizione di M83, la quantità di gente a vederlo è impressionante, e non si può non restare rapiti e mettersi a ballare sui pezzi dell’artista francese. Musica di spessore tra synth-pop e shoegaze, il pubblico che apre gli occhi e sogna, immerso nelle onde sonore di brani come Reunion, Midnight City, e la bellissima Couleurs in chiusura. Si ritorna con calma al palco principale. Al San Miguel suonano i Rapture che ho già visto live a settembre e non mi hanno completamente convinto. Mi sbaglio di grosso, quella che sta spaccando sul palco è una band completamente trasformata. La loro esibizione è perfetta, dalla partenza con In The Grace Of Your Love, passando per i brani degli album precedenti (esplosiva l’esecuzione di Echoes), per poi tornare al nuovo disco, con quella How Deep Is Your Love, che tanto ci ha fatto ballare nei djset. Grande live e grande energia. Dopo aver ballato e sudato, un po’ di musica sporca ci vuole, è tempo di Obits, che suonano alle 3:00 al Vice. È uno spettacolo godersi le chitarre sporche e cattive della band americana. Molti i brani da “Moody, Standard and Poor”, compresa l’incendiaria e conclusiva I Want Results urlata a squarciagola dal pubblico sotto il palco. La conclusione della seconda giornata di festival sarà come al solito al Ray-Ban dove ad attenderci è il set di Aeroplane pronto a far ballare tutti fino alla seconda, meritata alba al Parc.
Giorno 3
Una delle cose più piacevoli del Primavera è che, oltre a goderti i live in mezzo alla gente, tra la calca, l’emozione e il sudore, c’è anche la possibilità di rinchiudersi in teatro, stare comodi, in silenzio e farsi cullare dalla splendita acustica dell’Auditori. E così il terzo giorno di festival inizia proprio su una comoda poltrona di teatro, alle quattro di pomeriggio, ad ascoltare un po’ di canzoni chitarra e voce, con il palco spoglio e gli artisti soli e nudi con il loro strumento. Tre live di fila, tre personalità completamente diverse. Da’ il via Father John Misty, al secolo Joshua Tillman, già batterista dei Fleet Floxes, ora in veste di cantautore. Scherza con il pubblico mentre esegue i brani del suo primo disco “Fear Fun”, con arrangiamenti minimali e un pizzico di ironia. Dopo circa un’ora ad impadronirsi del palco è il leader degli Swans, Michael Gira che, in veste di folk-man, ci presenterà le sue canzoni in bilico tra rabbia e passione. Un set intenso ed intimo, che alterna la gentilezza della chitarra acustica a improvvise incursioni elettriche. Nell’eseguire i suoi pezzi, Gira mette in mostra tutta la sua teatralità, il risultato è un concerto di altissimo livello, che terrà tutti con il fiato sospeso fino all’ultima nota. È ora il momento delle lacrime, l’Auditori viene fatto svuotare per l’unico live a pagamento (non incluso nell’abbonamento) del festival. Ad esibirsi è Jeff Mangum. Teatro pienissimo, vietata ogni foto o ripresa. Jeff sale sul palco e invita la platea ad avvicinarsì, è così che verrà circondato di affetto e suonerà i suoi brani con parte del pubblico seduta sul palco e sui gradoni antistanti. Tutto il repertorio dei Neutral Milk Hotel interpretato con emozione vibrante. Sui brani di “In The Aeroplae Over The Sea” la pelle d’oca è assicurata. Si torna allo scoperto, sono solo le 20:30 ed è il caso di portarsi al Pitchfork per gustare un po’ di Atlas Sound. Bradford Cox, talentuoso leader dei Deerhunter, sale sul palco per presentare il suo “Parallax”, nonostante le ottime premesse però, il live non riesce a decollare, un po’ di problemi tecnici ai loop durante l’esecuzione di Te Amo e tanta voglia di prendersi poco sul serio da parte di Cox, che prende in giro il pubblico, consigliando a tutti di non drogarsi e indicando le navi all’orizzonte. L’ottima Sheila chiude la parte di concerto che riesco a vedere. Corro verso il Mini, tra un quarto d’ora suona una delle band più attese: i Beach House da Baltimora. In una scenografia di luci soffuse, emerge l’esile figura di Victoria Legrand, il live inizia con una Wild sorniona. Le atmosfere oniriche ci sono e catturano, ma il concerto, nella sua perfezione stilistica, appare leggermente freddo e distaccato, ma anche questo fa parte della loro musica, perfetta e algida. Il nuovo “Bloom” la fa da padrone, ma non mancano piacevoli incursioni in quel meraviglioso capolavoro che è “Teen Dream” (da Norway a Zebra). Il live termina e torno al Pitchfork per quello che sarà probabilmente la più bella sorpresa del festival: i Chromatics. Li avevo già apprezzati su disco e la curiosità e l’hype per un loro concerto era chiaramente alta. Meraviglioso l’impasto di suoni che parte dal synth pop fino a sfiorare i territori della dance, grande atmosfera e soprattutto grande l’interpretazione di Ruth Radelet, dalla voce suadente in Kill For Love ai toni neri di These Streets Will Never Look The Same, fino alle due bellissime cover (Running Up The Hill di Kate Bush e Into the Black di Neil Young). Un concerto da tenere in mente e da rivedere appena possibile. Si respira qualche minuto e ci si sposta per l’ennesima volta: la storia dell’alternative sta per calcare il Mini. Gli Yo La Tengo sono prontissimi a dare spettacolo, con il loro show psichedelico dai ritmi dilatati. I brani brillanti di album come “I Can Hear The Heart Beating as One” e “I Am Not Afraid Of You and I Will Beat Your Ass” vengono allungati come mantra, tesi a incantare il pubblico. Si canta con Stockholm Syndrome, ci si agita con Here To Fall e si esplode nell’atteso bis di Sugarcube. Dalla psichedelia si passa all’elettronica cattiva e potente dei Justice al San Miguel. Si balla e ci si dimena per un’ora abbondante, tra slogan cantati e suoni potenti. Sul palco l’immancabile croce accerchiata da casse a far risuonare la potenza della loro musica. Il duo francese fa letteralmente sballare il pubblico, con la sua consueta aggressività. Un concerto elettronico che ha quasi il sapore di un live set punk. È tempo di atmosfere rilassate e al Ray-Ban ci si appresta a seguire Neon Indian. Mi aspettavo qualcosa di molto diverso da questo live, un concerto meno suonato e più elettronico, ma il loro spettacolo è da live band e dobbiamo farcene una ragione. Un set non brutto, ma sicuramente diverso dalle atmosfere a cui i dischi ci avevano abituato, Polish Girl stravince. Sono le ultime ore, quelle in cui ti muovi per inerzia, in cui cerchi un motivo per allungare la notte, l’ultima al Parc in attesa di una nuova alba, e allora il set di Scuba diventa un ottimo pretesto per ballare ancora un po’, per guardare il Forum sfollarsi lentamente, mentre la tenue luce dell’alba che ha inaugurato l’inizio di questo racconto si riprende il suo spazio. Più inopportuna che mai, ci porta alla constatazione amara che un altro Primavera Sound se n’è andato e che domani di palchi tra cui correre non ce ne saranno più.
Come festa di chiusura ci sarà un live di Yann Tiersen sotto la pioggia che non vedrò e una sudatissima serata al solito club Apolo, con gli ormai noti Black Lips, impegnati in uno show rockabilly in cui fare stage diving dal palco diventa la normalità per la metà degli spettatori che salgono sul palco e si lanciano sulla gente. Tra invasioni di palco e interventi della sicurezza, resta ancora una notte da ballare, ma questa volta sarà veramente l’ultima.
Arrivederci all’anno prossimo, Barcellona!
Le foto del Primavera Sound 2012
foto ufficiali a cura di Dani Canto, Eric Pamies, Santiago Periel e Damia Bosch.