27 Giugno 2012
Ippodromo delle Capannelle, Roma
“Esteja alerta para a regra dos 3, o que você dá, retornará para você. Essa lição você tem que aprender, você só ganha o que você merece.” E’ portoghese, e tradotto in italiano significa: “Stai attento con le regole del 3, quello che dai torna a te. Devi imparare questa lezione: tu vinci solo quello che meriti.” E’ con questo enigmatico messaggio – l’incipit di Silence, traccia numero uno di “Third” – che si apre il concerto romano dei Portishead, nella bella cornice stellata dell’Ippodromo delle Capannelle. A dieci anni di distanza dal disco precedente (“Portishead”, 1997) la band di Bristol ha dato alle stampe la sua ultima (la terza, appunto, come suggerisce il titolo) fatica discografica, un album diverso, difficile, e cupo, che offre un ulteriore segno di discontinuità col passato, portando in un certo senso a compimento la ricerca stilistica intrapresa dopo “Dummy”, opera prima della band, piuttosto unanimemente considerato pietra miliare del trip hop.
I Portishead ormai sono grandi, e smesse le vesti di alfieri di quel Bristol Sound di cui hanno, insieme con Massive Attack e Tricky, scritto la storia, mettono in scena uno spettacolo ben strutturato in cui a farla da padrona sono la precisione e la cura nell’esecuzione dei brani, e la bravura di Beth Gibbons, che vola impeccabile da una nota all’altra, cambia registro con estrema naturalezza, e regala interpretazioni di rara intensità. Gibbons può fare tutto con la voce, e lo dimostra ampiamente in una delicata quanto sofferta versione di Wandering Star, in cui fa sfoggio, specie nei vocalizzi finali, di grande maestria tecnica, davanti a un pubblico in adorazione. Prima ti seduce e poi ti commuove, insinuandosi come una lama sottilissima tra lo stomaco e la gola, nel punto esatto in cui a volte sembra nascere e soffocare il pianto.
Lo show si dipana in modo lineare, alternando a episodi dal sapore caratteristicamente trip hop dei pezzi più vecchi (Mysterons; Over; Cowboys) momenti più puramente elettronici (Nylon Smile; The Rip; Chase the Tear su tutti) in cui sono i tappeti di synth a prendere il sopravvento sulle chitarre. Dalle atmosfere da spy-movie anni ’60 di Sour Times, che vede una partecipazione corale del pubblico durante il ritornello, si passa alla fragilità della già citata Wandering Star, e subito dopo all’alienante ossessività metallica della batteria elettronica di Machine Gun, un brano dai suoni industriali su cui si posano tastiere evocanti atmosfere quasi apocalittiche.
E’ il momento di Glory Box, e un boato di applausi e ovazioni si solleva dal pubblico; le mani si alzano in aria, ma non impugnano accendini, bensì cellulari di ultima generazione, che scandiscono con i loro flash l’intero scenario, mentre sullo sfondo del palco compaiono proiezioni di clip video alternate a bellissime soggettive del concerto in atto. L’ultima prima dell’encore è Threads, angosciante traccia di chiusura di “Third”; Gibbons nel ritornello canta: “sono esausta, dal pensare a perché sono sempre così insicura”. LA domanda è di quelle che chiunque si è posto nella vita, e alla quale forse tutti vorremmo saper rispondere. Nel finale l’interpretazione si fa più concitata, ed io ho la netta sensazione che tutti si stiano, come me, sentendo un po’ meno soli. Quando arriva il momento di Roads, il pubblico è cotto a puntino. La voce sussurrante di Beth si staglia tra i rhodes avvolgenti e i gemiti di chitarra di Adrian Utley, e sono brividi per tutti, anche per l’irritante tizio di due metri davanti a me che palesemente si trova lì per caso (ha trascorso tutta la serata a sbaciucchiarsi colla fidanzatina uscita dal remake di “Tre Metri Sopra il Cielo”) ma a cui alla fine arriverà in mano la bacchetta lanciata tra il pubblico.
Dev’essere stato il karma a punirmi per avergli – involontariamente? – rovinato la maglietta con la sigaretta qualche minuto prima, maledettissimo karma. D’improvviso mi rimbomba nel cervello l’ammonimento in portoghese di apertura concerto.Lo spettacolo si chiude con We Carry On, che incalza rumorosa e tonante, mentre Gibbons scende tra il pubblico e si lascia toccare, spettinare, stringe le mani a tutti, e finalmente la vediamo anche sorridere. Come sorridiamo tutti, del resto, e soddisfatti e contenti ci avviamo senza fretta verso l’uscita.
Ci sono immagini, suoni, che si registrano nella memoria emotiva come dei lampi folgoranti, racchiudendo come una rivelazione significati profondi e risposte su noi stessi, e che tornano poi improvvisamente come dei flashback senza tempo quando serve, ad esempio quando abbiamo voglia di chiudere a doppia mandata il mondo fuori e consolarci con quei pensieri di pura e semplice bellezza che sempre più a fatica riusciamo a trattenere. E i Portishead ce ne hanno regalati un bel po’ di questi pensieri.
Che dire quindi, in conclusione, se non semplicemente: Grazie Portishead.
Juliana Maruggi
foto a cura di Luigi Orru
Setlist
- Silence
- Hunter
- Nylon Smile
- Mysterons
- The Rip
- Sour Times
- Magic Doors
- Wandering Star
- Machine Gun
- Over
- Glory Box
- Chase the tear
- Cowboys
- Threads
Encore
- Roads
- We Carry On
Brava Juliana!
Sarà perchè ti conosco e amo i Portishead, ma questo report mi ha emozionato; non scherzo.
Ciao!