Era l’inizio del 2011 quando a piazza Tahrir, al Cairo, iniziarono le imponenti manifestazioni che condussero alle dimissioni di Hosni Mubarak. Fu forse l’evento più travolgente della primavera araba, l’ondata di rivolte per cui più di un dittatore invidiò la sorte di un co.co.pro. al suo ultimo giorno di contratto.
Sono passati più di due anni e la protesta è diventata endemica, oltre a guadagnarsi il premio di personaggio dell’anno del Time. In pochi mesi si sono sbloccati contesti arrugginiti da decenni. La Tunisia, dove non succedeva nulla dall’invenzione del cammello, ha licenziato il suo decennale presidente. In Egitto e in Libia due pezzi da novanta come Mubarak e Gheddafi ricevevano lo stesso trattamento.
In Occidente ci siamo gasati tutti. Sembrava che una specie di ’68 meglio riuscito stesse capitando proprio sotto casa. Gli egiziani facevano quello che avremmo voluto fare da un pezzo con Berlusconi, e senza neanche passare per Santoro.
Poi qualcosa si è inceppato. La primavera araba già in Libia non è riuscita a vincere facile come al Cairo o Tunisi. C’è voluto l’intervento straniero perché Gheddafi e il suo regime finissero a gambe all’aria. E della Libia del post-dittatura si sa solo che è meglio non metterci piede.
La popolazione si è sollevata anche in Siria. Ma la storia insegna quanto sia dura scagliarsi contro chi porta improbabili baffetti. E infatti Assad, a più di due anni di distanza dall’inizio delle proteste, è ancora al proprio posto, mentre la guerra civile fa a pezzi il paese.
Ci siamo allora accorti di non essere sul set della versione maghrebina di The Avengers. Chi protestava e combatteva non era sempre dalla parte dei supereroi. E, tra coloro che parteggiavano per Gheddafi e Assad, c’erano anche poveri cristi preoccupati di avere qualcosa per cena e non diventare i bersagli di una gara di tiro con il kalashnikov. Le dittature, in modo perverso e violento, avevano dato un ordine a una realtà precaria, in cui alcuni gruppi tribali o religiosi sarebbero stati destinati alla parte del ragazzino timido appena entrato in una confraternita omofoba del Texas rurale.
Parallelamente crescevano anche i dubbi sugli insorti. Soprattutto in Siria e Libia, accanto ai laici progressisti, si facevano avanti gruppi la cui idea del mondo potrebbe leggermente inquietarvi, se il venerdì sera preferite l’aperitivo alle sure del Corano.
I nostri governi hanno risolto il complicato dilemma in tre semplici mosse:
- Assad è cattivo
- anche gli islamisti sono cattivi (ma un po’ meno)
- i progressisti sono buoni (ma i fondi per loro li abbiamo usati per ritardare il pagamento dell’Imu)
Le forze con in mente un futuro post-dittatura più simile a una forma di governo partecipativa si ritrovano così a combattere con i miniciccioli, mentre la componente più invasata degli insorti riceve vagonate di armi da paesi interessati a una forte presenza islamica radicale nella regione.
Qualcosa di nuovo è sopraggiunto con le proteste di piazza Taksim, a Istanbul. Come tre anni fa in Tunisia anche questa volta il dissenso è esploso inaspettato. E contagioso. In pochi pronosticavano una diffusione della primavera araba proprio in Turchia, un paese dove le cose vanno meno peggio che altrove.
Lo scontento si è subito presentato nella forma vivace e rinnovatrice di piazza Tahrir, incanalando su di sé le attenzioni di tutto il mondo. Forme di protesta finalmente nuove hanno messo in subbuglio una cronologia del dissenso che sembrava virare sempre più verso credo fondamentalisti e teleguidati da interessi esteri.
E ieri sono scesi di nuovo in piazza loro, gli Egiziani.
Mubarak e la sua faccia da cattivo delle soap opera sono stati sostituiti da Mohamed Morsi. Uno che, provata l’ebrezza della democrazia, è rimasto traumatizzato al punto da rincorrere un ritorno all’ancien régime. Oltre ad assicurare ai suoi compagni di partito buona parte delle posizioni di forza dell’apparato statale, sta cercando di accaparrare per se stesso quanti più poteri possibile.
La rivoluzione è stata tradita, sembrano dire gli Egiziani. E oggi sono di nuovo in piazza Tahrir a fare casino, per rimettere in moto qualcosa che si era inceppato. La primavera araba riparte dal via.
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