Ho come l’impressione sia finito Breaking Bad.
Ne ho vista sì e no mezza puntata. La mia cerchia di amici, da quando ho assunto il ruolo di outsider rispetto a uno dei fenomeni televisivi (e non solo) degli ultimi anni, si è sensibilmente ristretta. E nei giorni scorsi ho aperto con timidezza la home di Facebook, sicuro di sentirmi come un adolescente palestinese ad un Bar Mitzvah.
La gente non va più al cinema (ed è colpa di Jamie Lannister)
Ma Breaking Bad non è l’unico pezzo da novanta nel panorama delle serie tv.
Produzioni come Game of Thrones, Boardwalk Empire e Boss (per citarne solo alcune) sono seguite in tutto il mondo. E diventa sempre più difficile incontrare qualcuno che non abbia anestetizzato il piattume di una relazione sentimentale stantia con il sarcasmo di Tyrion Lannister.
Ecco allora le ragioni per cui Google su Walter White rintraccia quasi il doppio dei risultati riguardanti Brad Pitt (e il triplo di quelli su Mandela).
La serialità
Non è per impedirvi di perdere il lavoro a causa delle troppe assenze che la HBO produce serie tv la cui durata totale renda impossibile il loro esaurimento nell’ennesima maratona notturna.
Il potere di penetrazione di un prodotto nella vita degli spettatori dipende anche da quanto questo diventa parte della loro routine. Lo hanno ben capito i manager Disney (che srotolando i 17 capitoli dei Pirati dei Caraibi si sono garantiti la pensione) e, prima di loro, i realizzatori di Un medico in famiglia.
La potenza della serialità si esprime nel fatto che mia madre abbia ritenuto valida per la formazione del suo primogenito (e anche per la propria) la vicenda del Dottor Lele Martini, un dipendente pubblico assenteista le cui giornate consistevano nello scoparsi la ex di Andrea Pezzi e chiacchierare con un padre dal passato ambiguo riconvertitosi in guida spirituale.
La serialità, a meno che non riguardi un prodotto talmente infimo da costringere lo spettatore a cambiare canale e condurre la serata all’eutanasia con un programma di Santoro, lega il pubblico attraverso l’abitudine. Ogni puntata ricorda le gocce d’acqua della tortura cinese, con la differenza che, invece di non poterne più, aspettiamo con ansia il prossimo colpo sul cranio. Perché?
“Quando ricomincia Game of Thrones?? Quando ricomincia Game of Thrones?? Quando ricomincia Game of Thrones??”
Qualità
La tv è sempre stata la sorella scema del cinema, quella a cui parli solo per chiedere il numero dell’altra.
Ma qualcosa è cambiato.
Mentre Scorsese produce Boardwalk Empire e Vince Gilligan si candida prepotentemente per qualsiasi premio abbia a che fare con la bella scrittura, Hollywood arranca. L’ultimo Oscar l’ha vinto Argo, un film onesto, a tratti molto convincente, che si basa fondamentalmente sulla tensione generata dal tentativo di fuga di un gruppo di ostaggi. Tutto ok, ma lo spessore dei protagonisti è quello di un concorrente di Ballando con le stelle.
Le serie tv, almeno quelle fighe, hanno saputo sfruttare il monte ore che le costituisce per creare, oltre a soluzioni narrative mozzafiato, personaggi credibili lontani dalle sagome cartonate tipiche della grande produzione cinematografica, che, arrivati a questo punto, trova il suo pubblico solo tra i tamarri dei multisala più disagiati di Roma Sud.
Le sceneggiature sono sfaccettate e ambiziose al punto da avvicinarsi alla realtà. Mi riconosco molto di più nel Nucky Thompson appena scampato all’esplosione del Babette’s che in un qualsiasi personaggio di Dawson’s Creek. C’è tutto un mondo, quello dei telefilm, che è stato spazzato via dalle serie tv dell’ultimo decennio.
Indice di questo passo evolutivo è lo humor. Il cinema ci ha abituati ad un umorismo ingabbiato in comparti stagni. Ci sono i film comici, i personaggi comici e quelli fintamente comici. La prima categoria è Una notte da leoni, la seconda Ben Stiller e la terza lo Sherlock Holmes di Robert Downey Jr. che, dopo un paio di incredibili evoluzioni, scuote via la polvere dal cappotto e dice: “In fondo, niente di speciale”. Tutti e tre sono umorismi stantii, non stupiscono perché lo spettatore medio di queste produzioni cerca proprio quello humor, quel preciso tipo di battute.
Le serie hanno rivoluzionato questo approccio: le risate vengono spesso sostituite dai ghigni.
Il caustico Tyrion Lannister ha reso godibile una produzione molto seriosa, ma è anche l’esatto contrario della macchietta monodimensionale. Innervare di humor la complessità dei personaggi e delle vicende è un elemento di potente credibilità per molte serie, oltre al motivo per cui spesso risultano geniali.
Non è un caso quindi che le produzioni di maggior successo siano interpretate da attori in gamba e mai da star. Sono banditi gli ingaggi milionari per i divi alla Tom Cruise o gli altri a disposizione nel catalogo di Scientology. Il budget delle serie è gonfio di dollari, ma vengono saggiamente investiti in sceneggiatori di primo livello ed effetti speciali.
Per tutte queste ragioni si tratta di prodotti destinati a sopravvivere alla probabile morte della tv (dai, siamo onesti, le serie le piratiamo tutti. Altrimenti Rai4 avrebbe ascolti pazzeschi) e all’agonia del cinema. House of Cards, il nuovo lavoro di Kevin Spacey, non ha mai sfiorato altro schermo che quello del computer, essendo stato realizzato per il servizio di streaming on-demand di Netflix.
E tutti dicono sia una figata.
E’ il segnale di un genere che sa cogliere il meglio di cinema e tv e sopravvivere ad entrambi.
In Italia…
Anche in Italia qualcosa si è mosso. Romanzo Criminale è un bel prodotto che sconta solo il difetto di non stupire troppo quando, durante la prima stagione, la trama prevede la morte di Aldo Moro. Tuttavia la serie di Sky è un esempio isolato e a farla da padrone sono ancora le fiction in cui le tette della Arcuri interpretano Maria Montessori.
Ma sulla qualità delle produzioni italiane è inutile dilungarsi: altri hanno già detto tutto.