Gli anni zero, dove tutto è cominciato. Patria di una miriade di esuli senza tempo, destinati a guardare al passato per potersi concedere l’idea di meritarsi qualcosa di più di ciò che hanno «Perché trent’anni fa si stava meglio». Anni in cui il precariato da scandalo è diventato figlio legale di un lavoro in nero che, prima, ci sfamava ma adesso è troppo costoso che tanto vale metterti in regola per sei mesi. Momento in cui la storia si è fatta da parte per un po’, lasciando spazio al silenzio, senza grandi guerre nel mondo o movimenti artistici in grado di raccontarci quelle interiori. Anni in cui non si pensa di fare cose grandi che poi magari fra qualche secolo ne parleranno come di un nuovo medioevo, non più davvero oscuro, le cui strade sono illuminate dal google maps di chi non sa più perdersi. Gli anni zero, in cui nulla è cominciato ma tutto sembra finire, in cui nessuno vuole starci e allora cerca di ricordare com’era essere nati all’epoca degli Stones ancora in chimica, o in quelli del Punk e del ’77 a Torino, in mezzo ai proiettili e al comunismo che sembrava reale prima che ti ammazzasse una pallottola vagante. Che magari l’oppio lo trovavi anche più facilmente a casa di Dorian Gray.
L’alternativo anni zero come il rock dopo Elvis Presley, da marginale componente dell’underground delle grandi città, a suonare negli stadi. Imbottito di cavalli pronti a farsi spazio nella nuova moda del meno sei alla moda più sei dentro al giro. Di sotterraneo gli è rimasto soltanto l’abbandono disgustato dei vecchi, quelli che avevano aperto un circolo poco fuori dalla città e non lo riempiono più, perché quelli che prima erano posti per figli di papà hanno fatto un restyle. Ma la musica è buona ed è la legge del mercato. E i capisaldi di una cultura alternativa che ancora resistono devono fare i conti con i debiti e fanno entrare tutti, ma l’apparenza non è ancora diventata una cultura. E se gli anni zero sono diventati gli anni dell’esplosione dell’underground qualcosa di positivo c’è ma non è la quantità di persone che riesce a coinvolgere, piuttosto l’idea dell’apertura delle cantine dopo anni di muffa e che qualcosa di nuovo possa nascerci davvero. Anche perché le droghe sono una costante del passato uscita fuori insieme ai vestiti rimessi dai nonni che tanto fanno tendenza. Ma non c’è solo la musica, i quartieri degradati riqualificati dai ragazzi in cerca di sé con i soldi di papà, c’è anche una massa di persone che ci si trova lì per caso e fa nascere nuove cose. Gli anni zero come fucina di un progresso che ancora non esiste, ma forse continuare ad odiarli porterà a qualcosa.
Le correnti artistiche, quelle scomparse dai giornali che ti ci buttano dentro solo le pubblicità delle grandi mostre, mentre le città pullulano di Picasso e Monet sui muri delle strade, o nelle provincie in cui forse più la street art coltiva il suo pensiero differente. Un secolo in cui le famiglie si ritrovano sui marciapiedi, senza poterne pagare l’affitto, non poteva tornare alle tele e ai vernissage, ma sfogarsi insieme alla morte dell’hiphop della west coast, perso a farsi i milioni o a contagiare le ragazzine che preferiscono lo sporco rapper al ragazzo della porta accanto. E abbellire il cemento è forse più utile per rendere meno pesante il clima da concentramento metropolitano contro cui cerchi di scappare mentre ti specchi sulla vetrina di un negozio di marca con l’idea che qualcosa da salvare ci sia davvero. Ma gli anni del lavoro erano altri anni, come quelli delle lotte operaie e degli acuti degli ultimi ventisettenni che sentendosi vecchi si ammazzavano. E paghiamo tutti gli errori che sono stati fatti prima, con le gambe fragili e gli occhi che si guardano intorno soltanto per cercare quel poco che possa renderti più originale, perché se l’alternativo è già bruciato, e il rap è per la provincia, la letteratura ancora ti può salvare. Ma anche lì, tranne tre o quattro non ancora morti, l’eredità scarseggia. Ma il nuovo non è la tendenza di questi anni e, visto che qualcosa di buono c’è già, meglio puntare sulle ristampe di Hemingway che su qualcun altro.
Le librerie chiudono ma a Natale sono sempre piene, gli ultimi rari volumi non acquistati sono in sconto e sono sempre quelli buoni. Ma c’è chi scrive per non essere letto, chi dipinge per non avere posterità, chi suona per non avere seguito e sono sempre quelli che ci riescono meglio. Ma per gli anni zero c’è troppo di tutto e allora si butta la spugna perché non sei più l’unico a farlo. E nessuno racconta quello che sta succedendo, o non lo si ascolta. Parleranno degli anni zero, è sicuro, ma sarà di un’epoca senza orecchie. Un’istantanea di tanti corpi tutti insieme, pieni di idee ma senza fiducia, perché quella l’hanno pagata tutti per permettersi di non pensare che domani è lunedì ed è il lunedì della responsabilità, del lavoro, dell’esame all’università, del cambiare il mondo e gli anni zero hanno vissuto un’eterna domenica. Sempre in procinto per cambiare ma poi sempre accontentatisi di quello che c’era già. Mentre sempre più anni si bruciano con il lavoro che non c’è e le idee che mancano, la corsa all’essere unico se la possono permettere sempre gli stessi.
Non si esce vivi dagli anni zero, perché non ci siamo ancora accorti di esserlo, forse.
(L’illustrazione è stata realizzata da Anna Agostini)