Facevo lunghi bagni, per ore e ore, sotto il sole come sotto la luce delle stelle, e non provavo null’altro che una leggera sensazione oscura e nutritiva. La felicità non era un orizzonte possibile. Il mondo aveva tradito. Il corpo mi apparteneva per un breve lasso di tempo; non avrei mai raggiunto l’obiettivo assegnato. Il futuro era vuoto; era la montagna. I miei sogni erano popolati di presenze emotive. Ero, non ero più. La vita era reale. (Michel Houellebecq, La possibilità di un’isola)
Di Venerdì 13 si muore, o meglio si cerca di morire. Il film inizia con un cielo che preannuncia l’arrivo di un temporale, incipit che ricorda il cielo sulla valle fangosa di Post Tenebras Lux di Reygadas. La luce va e viene nella sequenza di testa di “Near Death Experience”, epifania di tenebre albeggianti. All’interno di un bar la telecamera è ferma, isolata a filmare, come se non appartenesse a nessuno, l’inquadratura tagliata riprende a fil di bancone il depresso “Paul” (Michel Houellebecq).
Dopo Mammuth (2010) e Le grand soir (2012), i due registi Benoit Delépine e Gustave Kervern realizzano un film che filma ininterrotto, pedinante, estenuante, il suo protagonista. Cinema che torna alla sua natura primitiva del guardare, del registrare, del vivere il tempo di visione, dell’attesa. “Il sogno del regista: realizzare un film libero da qualsiasi contingenza materiale.” I due filmaker francesi divengono immateriali, incorporei e dissolvendosi dietro la soggettiva del corpo-macchina da presa, filmano il corpo ripreso altrove di Houellebecq. L’immagine in bassa definizione aiuta a vedere (meglio), l’indefinito della visione avvicina lo sguardo e allontana un cinema del futuro ultra de(finito). La mdp in questione è una macchina superstite, ultima a filmare il mondo, ultima a riprendere il quasi-morto Houellebecq nei suoi infinitesimali gesti: “io non posso ripetere un solo istante della mia vita, ma uno qualsiasi di questi istanti il cinema può ripeterlo indefinitamente davanti a me” (Bazin). Quello della coppia Delépine-Kervern è cinema che va alla ricerca della possibilità di vita, contrariamente al suo protagonista che va alla ricerca di una possibile “isola” di morte.
Lo scheletro di Houellebecq indossa una divisa da ciclista, fuma sigarette reggendole tra medio e anulare con sguardo disincantato, farfugliando frasi sul non senso della vita e vagando per affaticarsi, “insomma ci si allena un pò a morire”. (Vivrà) un’esperienza di quasi-morte aggirandosi come un folle senza meta tra i monti della Provenza-Golgota, isolato nell’alienante esistenza e nel paesaggio naturale che guarda sdegnato. I suoi tentativi di morte sono un fallimento e allora il corpo è ancora vitale per pochi attimi, danzante sulle note dei Black Sabbath. Si trascina con lo sguardo allucinato verso il cielo, riposando con le ossa sulle pietre come una lucertola al sole, alla ricerca di un contatto con il mondo naturale, nel tentativo di sentire ancora, di guardare, toccare. Come se l’impulso di sopravvivenza di Paul riflettesse l’impulso di sopravvivenza del cinema, o delle possibilità di vedere ancora del cinema, di ri-percepire fino a giungere alla purezza della visione, allo sguardo di un bambino che gioca con dei ciclisti in miniatura sulla (Terra).
Alla (fine) si è vivi, ma si è morti.