Michel Gondry è uno dei personaggi più originali del video-making contemporaneo: per video-making intendo qualsiasi tipo di opera artistica fatta di immagini (videoclip musicali – corti – documentari – film). I videoclip che Gondry ha girato per le canzoni di Bjork sono tra le cose più affascinanti che si siano mai viste nell’ambito delle arti visive e il sodalizio lavorativo con l’artista islandese è anche quello più florido e solido nel tempo, ma non vanno dimenticati i lavori per i Daft Punk, i Chemical Brothers, i Rolling Stones, i Radiohead e i White Stripes tra gli altri.
Quando nel 2004 il regista francese esordì nel Cinema l’impatto fu folgorante: Eternal sunshine of the spotless mind utilizzava una storia semplice, una storia d’amore, contornandola di magnifiche trovate visive e narrative che catapultavano lo spettatore in una surrealtà mai vista nè immaginata prima nella Settima Arte; con il successivo L’Arte del Sogno la magia e la fantasia prendevano il sopravvento sulle necessità di sceneggiatura e la poesia degli effetti speciali, tutti creati artigianalmente, era una chiara e semplice dichiarazione d’amore all’arte di George Melies.
Dopo il divertissement hollywoodiano Be Kind Rewind , Gondry ha diretto numerose opere sperimentali e d’animazione, molte delle quali purtroppo inedite in Italia, tra cui il film collettivo Tokyo! e l’innovativo cartone animato Megalomania, e nel 2011 si è lasciato coinvolgere dall’amico Seth Rogen nel progetto The Green Hornet, adattamento cinematografico del personaggio radiofonico e televisivo del “calabrone verde”, dando vita a un fumettone di celluloide con alcune sfumature interessanti ma mediocre nel complesso. Ecco perchè l’attesa per il nuovo lavoro del regista francese cresceva col passare dei mesi; sia per la trama già diffusa visto che si trattava dell’adattamento del romanzo cult di Boris Vian, La Schiuma dei Giorni (già portato al cinema nel ’68 da Charles Belmont), sia perchè si attendeva una sorta di riscatto da parte del cosiddetto “artigiano dei sogni” dopo gli appannamenti delle sue recenti fatiche.
Mood Indigo (titolo ripreso da un brano di Duke Ellington, presente con la sua musica come soave sottofondo della storia) è arrivato nelle sale con molte, troppe aspettative, e a mio parere resta un film riuscito a metà. La storia è quella di Colin, giovane e ricco idealista che sogna di incontrare il grande amore; e il suo sogno si avvera quando ad una festa incontra Chloe, una giovane donna che guarda caso ha il nome di una delle melodie di Duke Ellington, la preferita di Colin. I due giovani si innamorano, si sposano, ma durante la luna di miele Chloe si ammala per colpa di una ninfea che le cresce nei polmoni; per pagare le cure Colin è costretto a spendere tutto il suo patrimonio e a cominciare a fare i lavori più disparati in una Parigi che col tempo assume i contorni di uno scenario post-apocalittico. Con l’evolversi della malattia la decadenza colpisce tutto intorno alla giovane coppia, la casa rimpicciolisce, gli ambienti diventano oscuri e pericolanti, le persone invecchiano a vista d’occhio e persino le vite dei loro amici più cari paiono disintegrarsi, come se nulla potesse resistere alla condizione tragica che vivono i protagonisti.
A livello visivo e inventivo Gondry non delude, Mood Indigo (letteralmente “umore color indaco”) è a dir poco eccezionale per le trovate, per gli effetti speciali creati a mano, per la capacità di sviluppare ogni minimo particolare per dar vita ad un ideale mondo surreale: il cibo che prende vita e cambia forme, il cuoco che interagisce con chi cucina palesandosi in ogni elettrodomestico per seguire passo passo la preparazione dei pasti (appannaggio di un eclettico Omar Sy nei panni di un avvocato-domestico-guida spirituale), la nuvola che porta a spasso i personaggi innamorati tra la folla come emblema di coloro che l’amore innalza da terra distinguendoli dagli altri, gli arti snodabili che fanno danzare e le scarpe che ansiose di arrivare a destinazione si sfilano dai piedi e si avviano lasciando scalzo il protagonista, il cambiamento repentino dalla realtà colorata e allegra della prima parte del film a quella oscura, decadente, anche parzialmente isterica dell’epilogo, e naturalmente il finale da opera degli albori in bianco e nero, poetico, visivamente sublime, chiaro omaggio all’Atalante di Jean Vigo.
Ce ne sono a centinaia di creazioni memorabili in Mood Indigo, genialità Gondry allo stato puro; ma la sceneggiatura e il supporto narrativo latitano e confondono non poco, la favola atemporale che va spegnendosi è tirata per le lunghe disperdendo anche le energie e la solidità del pur bravo Romain Duris e della titubante Audrey Tatou (più convincente quando il suo personaggio si ammala). La sfida di trasporre cinematograficamente La Schiuma dei Giorni era alquanto impervia (chi ci aveva provato in precedenza aveva sfiorato la brutta figura): se per buona parte della storia l’opera resta fedele al romanzo di Boris Vian, se ne allontana per il finale e paradossalmente l’eccessiva fedeltà alla pagina scritta non sposa la potenza e il fascino fantasioso delle immagini, come se ci fossero due binari paralleli ma ben distinti che difficilmente si incontrano, da una parte l’efficacia visiva dall’altra la prolissità narrativa poco affine alle meravigliose scenografie di Stephane Rozenbaum e alla fotografia di Christophe Beaucarne.
Non smette di osare e sopratutto di sorprendere Michel Gondry, sopratutto quando è capace di rimanere al di fuori dalle dinamiche commerciali e narrative del Cinema contemporaneo: la sua creatività, la firma dell’artigiano dei sogni lascia il segno anche quando nel complesso alcune sue opere, vedi Mood Indigo, lasciano a desiderare.