La notizia è dentro la società, come intrappolata al fondo di un vicolo buio, e sta all’appuntita matita del giornalista farla uscire e destare dal torpore. Rimane a sonnecchiare lontano dai fatti mondani fino a quando non arriva qualcuno in grado di comprenderla e descriverla in minuziosi particolari, di darle forma e definizione. Non è semplicemente l’espressione di una civiltà in continuo movimento, ma anche la fusione tra pensiero e linguaggio. Banale a dirsi, ma difficile da concretizzare: indubbiamente il processo più arduo nel lavoro giornalistico. L’occhio della mente non sempre vede una realtà oggettiva, anzi, sono più le volte in cui l’immaginazione distorce contorni, suoni, eventi. È necessario passare ad un confronto diretto con le questioni, insomma osservare, osservare, osservare, chiedere, chiedere, chiedere, e poi osare e buttarsi anche sfacciatamente sull’oggetto, uomo o ambiente da descrivere. Metodo incontestabile, efficace nella sua semplicità, è uno dei motti più esplicativi di chi ha fatto la storia del costume italiano a partire dal secondo dopoguerra: Camilla Cederna.
Di famiglia borghese, è figlia di valori morali incorruttibili, ambiziosa, eppure alla mano, accusata con tono sprezzante da molti di essere una radical-chic, aggettivo tutt’altro che lusinghiero, è una persona a cui difficilmente si può dare un’etichetta. Da una parte la rubrica Il lato debole, tenuta per vent’anni su L’Espresso (dal 1956 al 1976), e dall’altra i libri Pinelli. Una finestra sulla strage e Giovanni Leone. La carriera di un presidente. Quasi due autrici diverse: la prima racconta con spirito quali siano le mode in voga e presenta una società superficiale e capricciosa sul limite del caricaturale, la seconda è l’esatto opposto: più seria, impegnata nel denunciare verità nascoste di una politica lacerata dalla corruzione.
Gaetano Afeltra alla fine della guerra la vuole subito al Corriere su cui scrive un paio di articoli fino alla fondazione de L’Europeo di Arrigo Benedetti per cui lavorerà nove anni. Si occupa del settore delle sfilate, con un occhio di riguardo alle grandi sartorie milanesi, vola a Parigi a vedere Dior e Balmain, incontra Maria Callas, da cui rimane straordinariamente colpita per eleganza e maniere. Le piace firmarsi con pseudonimi raffinati, trasformarsi in donne velleitarie, è Brigida Lecomte Bellini e inventa pettegolezzi tra mesdames parigine, ma è anche la contessa Raoul Pellettier de Belminy, moglie di un fisico milanese che partecipa a quelli che oggi chiameremo “aperitivi”. Ha l’onore di conoscere Rita Hayworth, Eva Peron, Vivien Leigh e Laurence Olivier, di sentire Toscanini, ormai ultraottantenne. Intervista Wanda Osiris, “la wandissima”, prima soubrette italiana, che come tale non sapeva né cantare, né recitare, né ballare.
In questi quasi dieci anni di Europeo, Camilla è anche una reporter: nel ’48 alla morte di Vittorio Emanuele III viene inviata al Cairo per incontrare la famiglia reale in esilio ad Alessandria. Dipinge i discendenti dei Savoia, arrivati definitivamente al capolinea, come persone normalissime che si preparano da soli colazioni, pranzi e cene. La Cederna ha questo potere: quasi non è la sua penna a scrivere, ma attraverso lampi fotografici disegna sulla carta stampata volti, luoghi, oggetti e sembra di poterli toccare tanto sono vividi. Le stoffe dei vestiti, la luce riflessa negli sguardi dei suoi intervistati, le urla di protesta nelle piazze gremite di gente, il mite ambiente dei salottini intellettuali. In fin dei conti è lei stessa a dirlo:
Scrivere è riuscire a dire le cose gravi con frivolezza e quelle leggere con gravità: ci vuole, però, il senso dell’ironia e anche quello dell’autoironia.
“La signorina dei merletti” si ritrova a parlare dei più disparati argomenti, a creare un vero e proprio abecedario della società. Tende l’orecchio ai discorsi della gente per strada, si documenta, chiede a destra e manca, annota tutto meticolosamente e infine si chiude nel suo studio dove avviene l’esplosione, la realizzazione dei suoi quadretti. Questo lato così “frivolo” ed ottimista della Cederna cessa in parte di esistere il 12 dicembre del 1969 alle 17 pomeridiane. Riceve la telefonata di un suo giovane amico che, alquanto turbato, la incita a recarsi fuori casa: “Corri subito in Piazza Fontana, dev’essere successo qualcosa. Chi dice lo scoppio di una caldaia, chi dice una bomba. Ci sono molti morti.” Neanche il tempo di finire la frase e Camilla è già su un taxi che, però, è troppo lento, anche per colpa del traffico dei giorni che precedono il Natale. Arrivata in Piazza Fontana l’aria è ancor più grigia di quanto non sia già a Milano. La facciata del palazzo della Banca dell’Agricoltura sembra coperto di pece a causa dell’esplosione e dell’incendio che si è propagato. Il pianoterra è spruzzato da rivoli di sangue. L’acre odore della morte si confonde con l’altrettanta intensa esalazione della dinamite. Le urla sono come il silenzio: non servono a niente a danno accaduto. Le sirene delle ambulanze, agghiaccianti risonanze lontane e poi sempre più vicine, si distinguono in un caos informe. Il sindaco Aniasi esce dal palazzo che non è più lui, ha sul volto una maschera senza espressione, un carabiniere sviene, comincia il doloroso calvario dei parenti delle vittime che riconoscono i corpi dilaniati. Camilla, dopo essere entrata in quel parco dell’orrore, se ne va stravolta, gli occhi lucidi, la mente frastornata, la convinzione che dovrà in prima persona, impedire il ripetersi di simili stragi. Ascolta i racconti di quelli che sono gli scampati: “E’ la guerra, il macello, il massacro!”, “Ad un certo punto sono volati quattro corpi già mutilati sul tavolo!”
Incontra Mario Scialoja, collega della redazione romana de L’Espresso che per puro caso si trovava quel giorno a Milano e che aveva prestato i primi soccorsi. Entrambi in stato di shock meditano sul gioco infingardo che è la vita, che è la morte. “La signorina dei merletti” cambia la propria identità in “la signorina delle bombe” e chi la accusa di essere una borghesuccia che tutto d’un tratto vuole diventare l’amica dei ceti operai si sbaglia. Lascia da parte “il bello scrivere” con tutti quegli aggettivi ricercati che le piacciono tanto, disposta a sacrificare ogni cosa per una causa giusta. Registra solamente più gli eventi, indaga come un ispettore che accumula prove, interpella la polizia, i giudici, gli avvocati e i politici. Così dopo che la sera stessa della strage il commissario Calabresi aveva detto: “I responsabili vanno cercati fra gli estremisti di sinistra. E’ opera degli anarchici”, entrano di diritto in scena i due personaggi che riempiranno le pagine di Camilla: Pinelli e Valpreda. La guerra silenziosa continua imperterrita. Poco più di un mese dopo, nell’anniversario di Piazza Fontana, lo studente Saverio Saltarelli, di ventitré anni, viene ucciso da una carica della polizia, ed è la prima violentissima risposta a chi vuol proclamare che gli anarchici non c’entrano e che la strage è di stato. Naturalmente la questura dirà subito che lo studente è morto per malore all’interno dell’università e la TV lo ripeterà.
Ma l’episodio giornalistico che l’ha consacrata definitivamente riguarda lo scandalo Lockheed. Questa faccenda ha coinvolto e portato alle dimissioni del Presidente della Repubblica Giovanni Leone. Nel ’76 comincia a circolare l’indiscrezione secondo la quale lui stesso sarebbe stato uno dei personaggi chiave nell’acquisto illecito da parte dello Stato italiano di velivoli dagli USA, con il nome in codice “Antelope Cobbler”. Non venne mai provata la sua responsabilità, ma per rispetto delle istituzioni preferì ritirarsi. “Il presidente non mi aveva mai ispirato quella bonaria simpatia che formava la sua immagine popolare: mi era sempre parso che dietro la figura amabile di questo papà nazionale ci fossero risvolti imprevedibili, che lo facevano il simbolo di una classe dirigente logora e compromessa”, dice la Cederna, che per estrema curiosità giornalistica, dovette comunque subire i tre gradi del processo a lei intentato. Conobbe anche un giovanissimo Silvio Berlusconi di cui ci lasciò un identikit perfetto, “un uomo non tanto alto, con un faccino tondo da bambino coi baffi, nemmeno una ruga”, e un nasetto da bambola, rimasto poi pressoché inalterato negli anni grazie a favolose plastiche facciali.
Camilla Cederna, giornalista e scrittrice, borghese e proletaria, personaggio controverso del giornalismo italiano, non venne sempre amata e in molti casi osteggiata come ad esempio da Indro Montanelli che l’attaccò pubblicamente: Tutto quindi mi aspettavo fuorché di ritrovarti all’improvviso nei panni di una Rosa Luxembourg o di una Dolores Ibarruri detta La Pasionaria. Ma la bravura di questa donna temeraria, cresciuta in ambienti ovattati, sta soprattutto dall’uscire dai propri schemi mentali, usando la curiosità come primario mezzo espressivo e non risparmiare mai una parola come in questa risposta alle accuse di Montanelli che sintetizzano la propria filosofia:
Hai anche l’aria di voler fissare un limite d’età per la scoperta dell’impegno ideologico, per il mestiere di “sentinella”, ma cosa mai ti fa pensare che per questo ci voglia un’età acerba? Il problema è di essere coerenti con le proprie convinzioni e di difendere i valori morali in cui si crede, cercando di dare alla giustizia un contenuto diverso da quello a cui siamo abituati, cioè la continua incarcerazione degli innocenti. Può darsi che rispetto a te abbia perso credibilità, ma l’importante è combattere una battaglia giusta e non avere la stima dei soliti benpensanti. Insomma non è mai tardi per far la sentinella; vivere non vuol dire sopravvivere e allora finirò con un proverbio, ovvio ma efficace: meglio tardi che mai.