Ci sono bambini in Brasile che vivono nelle favelas, soffrendo fame e povertà: alcuni di loro coltivano il sogno di diventare calciatori in Europa. Ma questo non sarà il pezzo che state aspettando sul sogno realizzato di quella piccola parte di brasiliani che ce l’ha fatta, ed è diventato calciatore in Europa e ha comprato una villa a tutta la famiglia in Brasile. Qui non troverete parole retoriche su quanto il calcio possa aiutare i giovani brasiliani ad uscire dalla povertà, né troverete altri giochi retorici della lingua, ché tanto se vogliamo mettere in piedi un ragionamento e lo facciamo bene chiunque può avere ragione a questo mondo (persino Giuliano Ferrara). Voglio iniziare parlando del Venezuela, della Siria (ehssì), dell’Argentina, della Libia, del cuore pulsante dell’Africa, delle prostitute che trovate nelle strade e che hanno lasciato la Nigeria pensando di arrivare in Europa a trovare un lavoro onesto; voglio parlare della povertà e delle guerre, voglio parlare della nostra naturale indifferenza quotidiana.
Voglio iniziare parlando della Palestina. Delle immense mobilitazioni di solidarietà a favore della Palestina: perché la Palestina ci mobilita con tutto il cuore e i sentimenti, e la Siria la ricordiamo solo nel tempo libero? Voglio parlare della convivenza a pochi passi tra ricchezze e povertà estreme in tutto il Sudamerica. Voglio parlare di tutte le grandi disuguaglianze che convivono a pochi passi in Argentina, in Brasile. Voglio parlare dei comitati studenteschi italiani che dedicano tutta la loro attenzione alla lotta a un pezzo di mondo che subisce un sopruso, ma dimenticano tutte le altre zone del mondo, come se esistesse un diritto di precedenza nell’umanità che soffre, in base a cose puramente inventate come razza, nazioni, sessi, eccetera. Voglio parlare di quante contraddizioni nascono e muoiono in quello che chiamiamo Occidente. Voglio capire perché ci interessiamo alle sorti ingiuste della terra solo quando riguardano anche l’Occidente: perché della povertà in Brasile ci ricordiamo solo in occasione del Mondiale, perché della guerra civile ci ricordiamo solo se intervengono le truppe occidentali (Libia). Voglio capire perché ci mobilitiamo solo quando c’è di mezzo l’Occidente, e non quando non ci siamo compromessi con queste faccende: perché lasciamo il diritto al bambino brasiliano di crescere nelle favelas fin quando non c’è il Mondiale di calcio di mezzo, perché ci interessiamo alle guerre e ai torti solo se c’è di mezzo uno stato pseudo-occidentale (vedi Israele), sostenuto da potenze occidentali. Perché se un dittatore del mondo che non ha alcun rapporto con l’Occidente si mette in testa di torturare il suo popolo noi andiamo a bere uno spritz con grande indifferenza, ma se in quel posto della terra dovesse arrivare un’Olimpiade, una minaccia di invasione, o qualcosa del genere, lasciamo lo spritz per una manifestazione prima dell’aperitivo.
Mi ricordo il periodo d’oro di No Logo di Naomi Klein, che invitava a boicottare alcune marche a causa delle condizioni di lavoro miserevoli in cui questi marchi erano prodotti. Il problema è la definizione di un mondo come qualcosa in cui siamo tutti terribilmente compromessi, anche quando compriamo oggetti da un venditore di strada che chissà per quale organizzazione è al servizio o lavora. Il problema è così difficile che la questione diventa una sola: accettare il mondo o rifiutarlo. Tornare a coltivare il proprio orto, come suggeriva il Candido di Voltaire, oppure accettare che non sapremo mai se si compiono quotidianamente ingiustizie sulla pelle delle persone che producono i marchi H&M o Nike. L’esperienza ci dice che smettere di comprare le scarpe della Nike non frenerà le ingiustizie del mondo, e che al fondo delle cose a pagare saranno inevitabilmente gli innocenti.
Le tremende differenze economiche che convivono a pochi passi nei paesi del mondo sono un problema che coi Mondiali di calcio non ha molto a che vedere: il Mondiale non è una causa scatenante, ma un sintomo. Ed eliminare un sintomo non risolverà e cancellerà i soprusi. Eliminare l’azienda Nike dalla faccia della terra, non eliminerà la possibilità di un’altra azienda che potrebbe utilizzare lo stesso sistema. E lo dico con un profondo rispetto per le manifestazioni del popolo brasiliano, che ovviamente sta cercando di portare l’attenzione su un problema, una questione sociale urgente, sfruttando finalmente un po’ di visibilità internazionale. Ho sempre stima delle rivendicazioni sociali, e delle proteste che partono da un disagio sociale: non potrei mai essere a sostegno dell’altra parte. Non potrei mai permettermi di dire che un Mondiale vale i tagli pubblici. E mi dispiacerebbe anche parecchio disilludere i ragazzi che vanno a manifestare in Brasile dicendo che probabilmente quei tagli ci sarebbero stati anche a prescindere dalla costruzione di uno stadio, perché quei tagli li stiamo subendo tutti a modo nostro. Forse è per questo che abbiamo ancora un umano bisogno di scandire il tempo con il divertissement.