Su Richard Melville Hall, a.k.a. Moby, è stato detto pressappoco tutto. Ma infondo se ti trovi ad essere, da bianco ad Harlem, pronipote del tizio che ha scritto Moby Dick e contemporaneamente a fare un disco da 9 milioni di copie come Play, vedersi la propria vita passata al setaccio dalla stampa, di settore e non, è un prezzo non poi così salato da pagare. Ora, vuoi per questa sovraesposizione mediatica, vuoi per una semplice crisi d’ispirazione, è da un po’ che il raffinato dj newyorkese sembrava entrato in un loop fatto di poche idee nuove e molti arrangiamenti che rasentano l’autocitazionismo. Per carità, i brani validi qua e là sono comparsi, ma quello che ha rappresentato un declino a tutti gli effetti è stata una sostanziale assenza di rinnovamento nella produzione. Ed è così che il nostro dj e producer di Harlem decide di dare un bel taglio con il passato. Nel 2011 lascia infatti New York e si sposta nella città degli angeli, dove a margine della sua produzione artistica, apre un blog di architettura, si da alla fotografia e finisce anche per diventare broker immobiliare per case di lusso (la noia, dice lui…). Nel frattempo però dal punto di vista musicale poco e nulla dopo quel poco riuscito Destroyed. Questo fino a quando chiama a raccolta una serie di amici, Mark Stent in testa a produrre il tutto, e manda alle stampe questo Innocents. L’album in questione è un insieme di dodici brani che si fregia di partecipazioni altisonanti e, come i più attenti già sapranno, ha già generato tre singoli: The lonely night, notturno affidato al vocione di Mark Lanegan (ad esser sincero un po’ al di sotto delle aspettative), A case for shame, classica ballata a la Moby, senza risparmio di loop e di pianoforte, affidata alla notevole voce soul di Cold Specks (tornerà anche nella meno valida Tell me), e Perfect life che forse è il brano che si può definire più propriamente canzone vista la presenza di una struttura strofa-ritornello con tanto di cori (il video vede lo stesso Moby assieme a Wayne Coyne dei Flaming Lips girare per Los Angeles vestiti da perfetti messicani con tanto di sombrero, chitarra a tracolla e fisarmonica).
L’album si apre con una melodia che ricorda certe nenie giapponesi e si ripete come un mantra per l’intera durata del pezzo, Everything that rises, distendendosi sui tappeti di archi e synth che ci si aspetta in un pezzo di Moby. Questo, insieme all’altro strumentale, Going wrong, ad A long time e Saints, brani in cui compaiono anche delle voci campionate, e The dogs, lunga e malinconica ballata di chiusura del disco in cui lo stesso Moby canta le brevi ma intense strofe, sono i brani firmati esclusivamente Melville. Come dicevo infatti, oltre ai singoli già citati, altre sono le collaborazioni presenti in questo disco: Damien Jurado compare in Almost Home, Skylar Grey presta la sua voce eterea per la profondissima The last day, Inyang Bassey collabora invece nell’episodio più bluesy (altro autentico marchio di fabbrica dell’autore) dell’intero album, quella Don’t love me che finalmente dona all’ascoltatore un po’ di sano groove, arrivando a ricordare certi felici episodi del trip-hop di matrice più cinematografica (lo stesso Moby ha definito il brano “more conventional, sexy song“).
Raffinatezza stilistica e una forte malinconia (roba molto più da East Coast che da California) restano le cifre di Moby anche in questo suo undicesimo album in studio, un album che gode di buoni spunti, ma che continua a non alzarsi molto sopra la media, preso nella trappola della ricerca di una coerenza che però lo fa scadere nell’eccessiva somiglianza ai lavori precedenti.
Insomma per farla breve in questa commistione di pezzi, nella media validi e ben prodotti, a mancare è solo una cosa: la novità.
Little Idiot, 2013