Se vuoi diventare famoso devi fare qualcosa di peggiore rispetto a chiunque altro al mondo. Qualcosa di bello e perfetto non interessa a nessuno.
Chiunque pensi che per diventare fotografi di fama internazionale si debba possedere obbligatoriamente una macchina fotografica reflex al top della gamma e degli obiettivi portentosi probabilmente non ha sentito parlare di Miroslav Tichý, artista dall’animo atomista e antisociale.
Miroslav Tichý nasce nel 1926 a Netcice nel sud della Moravia, all’epoca Cecoslovacchia, per poi trasferirsi stabilmente a Kyjov. Da sempre affascinato dalla politica e dall’arte si iscrive all’Accademia delle Belle Arti di Praga, dove si dedica principalmente alla sua prima passione che è la pittura e vi ci rimane ben oltre il 1945-1946, periodo in cui termina gli studi, per affinare le sue capacità. Nel 1948, con la conquista del potere politico da parte del Partito Comunista, inizia il suo lungo e tortuoso percorso. Mal digerendo le imposizioni del partito rivolte agli artisti smette di lavorare e trascorre le sue giornate passeggiando nei parchi sinché non è obbligato a prestare servizio militare, dopo questa esperienza si ritira nella sua Kyjov dove tenta di proseguire la sua carriera da pittore ma le continue ingerenze del partito e la sua non velata insofferenza gli costano anni della sua vita tra ospedali psichiatrici e carceri. Lo stesso Tichý racconta delle sue esperienze in carcere come delle esperienze al limite, dove un singolo pezzo di pane poteva cambiare completamente l’impatto psicologico di una giornata. Una delle vicende che andranno a segnare profondamente quest’uomo è quando il partito nazionalizza e poi sgombera, pur con il suo inascoltato rifiuto, l’edificio in cui aveva realizzato il suo studio di pittura. Questa esperienza l’avrebbe sconvolto talmente tanto, secondo chi gli stava vicino, che da questo momento smette con il disegno e la pittura. A detta dell’artista invece questa fase sarebbe la naturale fine di un percorso perché, secondo il suo pensiero, tutto ciò che era possibile disegnare e dipingere era stato disegnato e dipinto, per cui non resta che la ricerca di un mezzo nuovo che trova nella fotografia uno strumento tramite cui riuscire a guardare quello stesso mondo, da cui si era allontanato, sotto una luce diversa.
Con l’arrivo degli anni ’60 Tichý inizia a trascurare il suo aspetto e a sparire dalla società civile per diventarne un elemento esterno, un osservatore. Questo è il momento in cui avviene il passaggio dalla pittura alla fotografia, il momento in cui l’intera città di Kyjov diventata il suo personalissimo studio. Tichý si approccia in modo pieno alla fotografia, sfruttando ogni giorno 3 rullini, per un totale di circa 100 foto, ma senza nessuna predeterminazione. L’approccio è naturale, spontaneo, nulla è premeditato o precostituito, si limita ad osservare il mondo quanto più a fondo possibile. Non sceglie mai cosa, quanto o dove fotografare, è il mondo a scegliere per lui. I soggetti sono tutti colti nella loro naturalezza, anche a loro insaputa e questo risultato è ottenuto anche grazie al particolare modo di fotografare che consisteva, alle volte, nel nascondere sotto il maglione la macchina fotografica: uno scatto così fulmineo, magari anche senza l’osservazione tramite il mirino, che notarlo diventava pressoché impossibile. I soggetti dei suoi scatti sono quasi esclusivamente donne, senza distinzione di età, dalle quali riesce ogni volta a sprigionare un fine erotismo, mai volgare, tanto da esaltare al massimo la femminilità di ognuna. L’erotismo per Miroslav Tichý è fantasia, l’erotismo è sogno ed il mondo con lui, rifacendosi al pensiero di Schopenhauer (il mondo come volontà e rappresentazione), era anche illusione. Decisa è la contrapposizione nell’artista tra il modo ruvido tramite cui viene realizzato lo scatto, quasi come un voyeur che strappa senza consenso un frammento d’intimità, e il risultato finale della pellicola dove traspare con delicatezza tutta la sua sensibilità. Le fotografie sono rigorosamente in bianco e nero, questo anche per la maggior semplicità che richiedono nello sviluppo, rigorosamente homemade con il calar del sole, con l’aiuto di secchi e vasche da bagno posizionate anche in cortile. L’approccio allo sviluppo, non proprio minuzioso, fa sì che sul risultato finale rimanessero evidenti macchie dovute magari alle impronte oramai impresse, magari ai segni lasciati dal bromuro (usato nello sviluppo fotografico per via della sua fotosensibilità) e tutte queste sono sì errori tecnici ma ancor più sono per lui un tocco di poesia reso alla foto, un tocco di pittura che le si aggiunge. Ribaltando i normali criteri, in un mondo che osanna la perfezione e il perfettibile, l’errore diventava poesia. Altro tocco di pittura nelle foto si ha quando l’artista ricalca i contorni dei soggetti fotografati, così da accentuarne i contrasti, dettaglio tecnico a cui tiene particolarmente. Il materiale da sviluppare non è mai scelto secondo particolari criteri di estetica o tecnica fotografica ma Tichý, osservando i negativi, sviluppa semplicemente ciò che gli sembra una rappresentazione quanto più simile al mondo che lo circonda. Per lui in fondo l’approccio alla fotografia non deve essere astratto ma concreto, la fotografia per lui è percezione, un pieno affidamento ai sensi, in definitiva tutto ciò che esiste merita di essere fotografato. Una ulteriore contrapposizione la si nota nella cura delle fotografie una volta sviluppate. Le fotografie non sono custodite da nessuna parte, sono ricoperte di polvere e trovano una sistemazione temporanea a seconda delle circostanze ma d’altra parte, per evitare che si rovinassero o piegassero, erano spesso incorniciate da cornici di carta o cartone ritagliate e decorate a mano.
Caratteristica che probabilmente ha contribuito a rendere celebre Miroslav Tichý è la particolarità degli strumenti con cui realizza gli scatti. Non possiede una macchina fotografica o degli obiettivi così come siamo abituati a conoscerli oggi. Così come lo sviluppo delle fotografie anche il corpo macchina e gli obiettivi sono realizzati a mano da lui, una volta appresi i meccanismi alla base della fotografia e il funzionamento di questo dai tempi dell’Accademia, non è mai un’impresa ardua per lui che crea da sé tutto ciò di cui ha bisogno. Gli obiettivi hanno solitamente un corpo in cartone e le lenti vengono realizzate ritagliando del plexiglass, che viene poi levigato minuziosamente fino a renderlo dello spessore utile, e pulito con un miscuglio di dentifricio e cenere di sigaretta. Il corpo macchina ha soltanto l’aspetto di qualcosa di improvvisato perché nella costruzione sono presenti le stesse cure che si dedicano all’obiettivo. Il sistema di riavvolgimento della pellicola è gestito da un tappo di bottiglia, i tempi di scatto da un’elastico e dei rocchetti e così via. Tutto improvvisato ma niente lasciato al caos.
Miroslav Tichý si presenta come un individuo solitario, dall’aspetto talmente trasandato che nella sua città qualcuno suole ripetere ai bambini di lavarsi le mani perché altrimenti sarebbero diventati come lui. Tichý, riuscito nell’impresa di riadattare al suo atteggiamento nei confronti della vita e del mondo l’intero concetto, fin ora inteso, di fotografia, forgiando un’esperienza artistica alternativa, ma non per questo minore, e bypassando i tecnicismi, riunisce in maniera efficace le sue esperienze e sa valorizzare le sue opere pel tramite della mescolanza tra pittura e fotografia. La sua passione per la fotografia non dura però sino alla fine perché Tichý ad un certo punto decide di interrompere questo percorso, sostenendo ho pianificato un numero di cose che avrei voluto fare: ne avrei fatto un dato numero ogni giorno, un dato numero in cinque anni. Una volta finite, ho smesso. Storia e arte di quest’uomo vengono scoperte negli anni ’90, presumibilmente ad opera di Roman Buxbaum che realizzerà persino un film-documentario intitolato Tarzan Retired, ma da un certo momento in poi i rapporti tra i due si inclinano tanto che Tichý sosterrà poi, con una nota pubblica, che Buxbaum aveva violato i diritti d’autore legati alle sue opere e girato il film-documentario profittando della sua dipendenza dall’alcool. Nonostante tutto, questa scoperta gli permette di poter esporre le sue opere in tutto il mondo, nel corso di mostre interamente dedicate a lui e che proseguono oltre il 2011, anno in cui per Miroslav Tichý sopraggiunge la morte.
[Con la collaborazione di Fabiola Spagnolo]