Di tutto resta un poco, recita il titolo della raccolta postuma di elzeviri, racconti sparsi e prefazioni di Antonio Tabucchi. A poco più di un anno dalla sua morte, questo collage curato da Anna Dolfi è l’ultimo frutto dell’immaginazione dell’ei fu romanziere, traduttore, professore di letteratura portoghese e giornalista. Un’aggiunta al mondo, qualcosa che il momento prima non esisteva, una sorta di souvenir per l’umanità. Perché la letteratura, come la scienza, è creativa in quanto inventa, ma non si limita a questo. Al pari della scienza, la letteratura rivela qualcosa di già esistente, scoprendolo. E per Tabucchi esistono mille ragioni per fare letteratura, mille ragioni per scrivere.
Si scrive per paura? Per coraggio? Per sentirsi vivi? Per allontanare l’idea della morte? Per credere in noi stessi? Per gioco? Per serietà? Forse perché la vita non basta. Credo che si scriva per questo e altre mille ragioni ancora. Forse, chi scrive, anche per tentare di capire meglio, vuole tentare di conoscere.
Antonio Tabucchi non nasce come autore in proprio, ma come traduttore di lingua e letteratura portoghese durante l’esperienza universitaria. La scoperta della letteratura portoghese e, in particolare delle opere di Pessoa, scrittore fino a quel momento sconosciuto ai più, nasce comprando un suo libro ad una bancarella di Parigi, poco prima di tornare in Italia per finire gli studi. Ed è su questo incontro fortuito, come vuole il caso, che attecchisce nel giovane pisano quella concezione di romanzo che devia dall’accezione convenzionale. Pessoa ha creato dei personaggi, con copioni e voci differenti, che a loro volta fanno poesia. Ha creato una commedia umana senza il palco. E’ questa doppia capriola che rende la sua opera di altissima qualità estetica. Un’opera che ha cambiato radicalmente il punto di vista della poetica. Negli eteronimi e nei personaggi isterici di Pessoa, Tabucchi scopre che la verità non è mai una, che la verità è sempre incerta, che il dubbio è salutare e che la realtà va vista alla rovescia. E tradurlo è una maniera di entrare nel tessuto linguistico, di capire gli anfratti più nascosti della creazione letteraria. In un’intervista, Tabucchi afferma che:
per fare una traduzione ci vogliono due cose che paradossalmente non possono stare insieme: ci vuole arroganza e umiltà. Si impara molto, è un bell’esercizio.
Ed è anche una forma di scrittura, perché tradurre vuol dire anche scrivere. Lo scrittore Tabucchi compie i suoi primi passi col romanzo storico e con la coscienza letteraria di chi, partendo dalla premessa secondo cui tutto è già stato scritto, si occupa e preoccupa di rivedere, rifare, scoprire i punti di vista, gli equivoci senza alcuna apparente importanza e di mettere in luce il relativo che diviene determinante, il particolare che stravolge l’universale. La sua carriera di romanziere nasce con la prima pubblicazione fortemente voluta dall’amico Filippini di un suo dattiloscritto del 1975, Piazze d’Italia: la storia dei villaggi toscani di fine ‘800, la storia di una famiglia, di luoghi mazziniani, garibaldini, anarchici e socialisti. E’ un’antistoria italiana, un grandangolo nella cui inquadratura è immortalato il range storico dall’impresa dei mille ai massacri dell’invasione nazista. In questo quadro non sono riportati tutti gli episodi globali, ma sono i racconti brevi, tagliati e montati come nell’arte cinematografica, a comporre il discorso storico. Il narratore è il popolo, un popolo in cui tutti si chiamano Garibaldi, un po’ come in Cent’anni di solitudine, ma in questo caso invece della solitudine sono cent’anni di partecipazione.
Altro tema caro a Tabucchi è il viaggio, mai slegato dall’impalcatura storica e fuso insieme alla conoscenza del mondo portoghese. Un amalgama da cui prendono vita racconti sempre visti di sbieco, o al rovescio. In tale contesto si inserisce il racconto Donna di Porto Pim, 1983, libro che prende vita da un curioso viaggio nell’arcipelago delle Azzorre. Tale visita nasce dalla lettura di una cronaca cinquecentesca di un prete portoghese che descrive il posto come “luogo di vento, fuoco e solitudine”. Al tempo del viaggio di Tabucchi, l’arcipelago è piuttosto selvatico e arcaico e la caccia alla balena caratterizza la vita della sua gente. Tabucchi lo definisce un luogo di naufragi e di naufragi esistenziali. Naufragi perché queste isole erano state, dopo la scoperta dei portoghesi e il loro stanziamento, la tomba di scrittori del primo socialismo utopistico. Naufragi esistenziali perché l’arcipelago rappresenta quel luogo fisico così distante dall’immaginario comune cui si è abituati, quell’ignoto che offre un’altra verità, o almeno il dubbio che il pensiero vigente non sia esattamente così. Ed è in questo ignoto che il surreale fermenta e rovescia ancora una volta la lente del narratore, portandola sul piano dell’immaginario. Tabucchi tocca il clou del surrealismo quando si chiede quale sia la visione del mondo umano attraverso gli occhi e la voce di una balena:
Sempre così affannati, e con lunghi arti che spesso agitano. E come sono poco rotondi, senza la maestosità delle forme compiute e sufficienti, ma con una piccola testa mobile nella quale pare si concentri tutta la loro strana vita. Arrivano scivolando sul mare ma non nuotando, quasi fossero uccelli, e danno la morte con fragilità e graziosa ferocia. Stanno a lungo in silenzio, ma poi tra loro gridano con furia improvvisa, con un groviglio di suoni che quasi non varia e ai quali manca la perfezione dei nostri suoni essenziali: richiamo, amore, pianto di lutto. E come dev’essere penoso il loro amarsi: e ispido, quasi brusco, immediato, senza una soffice coltre di grasso, favorito dalla loro natura filiforme che non prevede l’eroica difficoltà dell’unione né i magnifici e teneri sforzi per conseguirla. Non amano l’acqua, e la temono, e non si capisce perché la frequentino. Anche loro vanno a branchi ma non portano femmine, e si indovina che esse stanno altrove, ma sono sempre invisibili. A volte cantano, ma solo per sé, e il loro canto non è un richiamo ma una forma di struggente lamento. Si stancano presto e quando cala la sera si distendono sulle piccole isole che li conducono e forse si addormentano o guardano la luna. Scivolano via in silenzio e si capisce che sono tristi.
L’anno dopo, nel 1984, esce Notturno indiano, altro libro nato da un viaggio, stavolta di lavoro, in India. Un progetto portoghese commissiona a Tabucchi la catalogazione di scritti occidentali rimasti fuori dall’occidente. Tale compito offre all’atipico viaggiatore occidentale lo spunto per scrivere, con sguardo estraniato, un luogo inaccessibile. Lo scrittore si dice come piombato su Marte. Ed è su questo panno di fondo che il protagonista del suo romanzo raggiunge l’India per cercare qualcuno che ha fatto perdere le sue tracce, qualcuno che ha scelto per sé il suicidio bianco. L’ingenua credenza è che in mezzo a tutta quella fiumana di gente, tra Nuova Delhi, Bombay e Calcutta, prima o poi, affacciandosi alla finestra, il protagonista vedrà passare di lì l’uomo che sta cercando. Come dirà Tabucchi poi, il romanzo è pieno di buchi, di vuoti, con un finale aperto e senza chiavi di lettura. Il libro viene riprodotto sul grande schermo da un regista francese, Alain Corneau, nel 1989, un film anch’esso senza spiegazioni, con gli stessi vuoti incolmati del libro. Un film che, forse proprio per questo, ottiene un discreto apprezzamento da parte del pubblico.
Ma il romanzo che lo consacra sul quel sonnecchiante palcoscenico nazionale e su un più recettivo contesto internazionale, è Sostiene Pereira, scritto nel 1993. Un romanzo ricordato dai più anche e non solo per la magistrale interpretazione che ne ha dato Mastroianni nell’omonimo film di Roberto Faenza. In quel periodo, afferma Tabucchi, in Europa cominciano di nuovo a soffiare zefiri di xenofobia, nazionalismi, razzismo e revisionismo, talvolta anche violento. Questo clima infausto lo riporta al regime salazarista portoghese del ’38. Sostiene Pereira è dunque un romanzo storico, uno squarcio aperto sulla vita borghese sotto la dittatura, una raccolta di fotogrammi sulla violenza cieca (la violenza è sempre cieca) di una polizia manovrata dal potere, sulla lotta politica del giovane Monteiro Rossi, sulla censura dell’informazione e su un’apparente calma, quella calma borghese che discorre su Thomas Mann mentre fuori c’è il caos. Qui, Pereira, cattolico, timido, pauroso, obeso, vedovo, giornalista del Lisboa, vive la sua vita ai margini, preso dai suoi rituali quotidiani, quali i dialoghi con la foto della moglie deceduta, le omelette alle erbe, le limonate molto zuccherate. Il mondo circostante gli scivola addosso. Ma è l’incontro con Monteiro Rossi, cui Pereira propone di scrivere dei necrologi per la rubrica culturale da lui diretta, che comincia a scuotere la terraferma su cui il vecchio giornalista aveva costruito la sua piccola roccaforte esistenziale. Monteiro Rossi, accettando l’incarico non per vocazione ma per bisogno, scrive pezzi impubblicabili, ma Pereira si mostra inaspettatamente comprensivo di fronte alle ragioni del cuore del ragazzo, esortandolo a trovare un giusto equilibrio nel notorio binomio cuore-mente. Con Pereira, Tabucchi costruisce un antieroe, un adulto che, attraverso la conoscenza di un giovane in formazione, si avvia verso una lenta trasformazione di sé:
perché quella che viene chiamata la norma, o il nostro essere, o la normalità, è solo un risultato, non una premessa, e dipende dal controllo di un io egemone che si è imposto sulla confederazione delle nostre anime; nel caso che sorga un altro io, più forte e più potente, codesto io spodesta l’io egemone e ne prende il posto, passando a dirigere la coorte delle anime, meglio la confederazione, e la preminenza si mantiene fino a quando non viene spodestato a sua volta da un altro io egemone, per un attacco diretto o per una paziente erosione.
La brutale uccisione di Rossi operata dalla polizia salazarista e che si consuma proprio nella dimora di Pereira da cui Monteiro si era rifugiato per timore di persecuzioni, è il motore della trasformazione del protagonista. La sua vecchia confederazione delle anime si disfa e un altro io egemone prende il potere, un io fino a quel momento tenuto sopito, a forza o per inerzia. Pereira dunque decide di pubblicare, con una mossa ingegnosa, un articolo in prima pagina sulla cruenta morte del giovane. La scena finale mostra nel film un Mastroianni che si affretta ad abbandonare il paese, sfumando tra la folla chiassosa delle strade lisbonesi. Sostiene Pereira, oltre che il titolo dell’opera, è anche l’inizio di ogni capitolo, per venticinque capitoli. Tale incipit, come un mantra, è l’espediente letterario attraverso cui l’autore giunge a dire che il romanzo altro non è che il verbale di un processo, un processo alla storia ma anche un processo alla letteratura che vuole sfuggirle.
Tabucchi è sempre stato un forte promulgatore del racconto, una sorta di Ulisse che, attraverso il viaggio, strumento che prende forma nel libro o nelle corde vocali, permette la conoscenza, la scoperta. Perciò, sostiene l’autore, non bisogna lasciare morire le storie, che siano vissute in prima persona o raccontate. Le storie sono mortali tanto quanto i loro narratori. E chiunque ascolti un racconto, diviene in quel momento testimone della storia. Poco importa il modo o il mezzo usato per trasmetterla. Il racconto è una sorta di sfida contro il tempo. Ed è proprio il tempo un altro tema ampiamente trattato negli ultimi racconti, romanzi e riflessioni di Tabucchi: si possono scrivere racconti sul tempo senza chiedersi che cosa sia, lasciandoli semplicemente entrare nel flusso del tempo. Perché anche la scrittura è fatta di tempo, il tempo che viene formulato e catturato dal vissuto umano. O forse è il tempo che cattura il nostro vissuto. In greco, il tempo non passa, ma invecchia. Ed è un frammento pre-socratico, che l’autore traduce come “inseguendo l’ombra, il tempo invecchia in fretta”, a ispirare il titolo di una delle sue ultime opere, Il tempo invecchia in fretta, 2009. Inseguire l’ombra per Tabucchi può significare andare dietro un’illusione, o un’illusione sbagliata. Dietro l’ombra può esserci tutto. Quindi, dai molteplici punti di vista su di essa, Tabucchi ne ha scelti nove. Nove storie ambientate perlopiù nell’Est Europa, tra cui Bucarest, Budapest e Varsavia. La scelta di uno sfondo insolito, quell’est europeo, poco toccato dalla letteratura d’occidente, che ha mescolato negli ultimi decenni il proprio calendario al nostro, facendolo oscillare. Le nove storie riguardano nove protagonisti, personaggi costretti a vivere o che si apprestano alla vita, personaggi che vivono nel ricordo e personaggi che si abbandonano lievi alla nostalgia. Queste storie non sono contestualizzate in un preciso momento storico, sono e vogliono essere atemporali, perché il tempo fa, disfa, sfugge, si ferma, confonde e inganna. Queste storie, come tutte le storie, lasciano un segno sui protagonisti, su coloro che le ascoltano, su coloro che le leggono, sulla Storia. Si incontra la storia di un uomo ebreo nato a Bucarest, fugge con moglie e bambino al fascismo e alle persecuzioni trovando asilo a Tel Aviv. Qui, viene internato in un ospizio, un’accogliente dimora dove trovar riposo negli ultimi anni della sua vita. Quando il figlio adulto, in visita, lo porta in giro per la città, l’anziano esclamerà: Che bella Bucarest! Poi, si incontra un uomo la cui vita appare tranquilla, quando si scopre essere la spia che pedinava Bertold Brecht. Si trova un ex ufficiale che ha subito le radiazioni dell’uranio impoverito nella guerra in Kosovo e che decide di spiegare ad una bambina come leggere il proprio futuro guardando le nuvole. E poi un altro uomo che per combattere la propria solitudine si narra delle storie ma, poco dopo, diviene egli stesso il protagonista di ciò che ha inventato, proprio come nei racconti di pessoana memoria. Il tempo è il collante di queste storie, mentre la nostalgia è il rumore bianco, in sottofondo. E, al pari del tempo, la nostalgia si presta a migliaia di punti di vista, quel contenitore vuoto che ciascuno di noi riempie come vuole, con immagini miopi di un’età dell’oro che non tornerà, o con pezzi rotti di brutto passato che, a dispetto del presente o della percezione di esso, messi in quel contenitore diventano curiosamente e paradossalmente piacevoli.
Di tutto resta un poco. Resta un poco dei racconti vissuti e di quelli di cui si ha notizia, dei viaggi reali, dei viaggi della mente. Resta un poco del tempo, per quanto ci sfugga. Resta un poco delle illusioni e dei sogni. Resta un poco delle lettere di Garibaldi alla fidanzata dal fronte, resta un poco dei balenieri, della balena parlante, resta un poco del desaparecido in India, resta un poco dell’odore delle omelette alle erbe di Pereira, delle ragioni del cuore di Monteiro Rossi, resta un poco della nostalgia di Bucarest a Tel Aviv, resta un poco della mappa astrologica tra le nuvole. Rimane sempre un poco di tutto. E la letteratura è la coscienza che la vita da sola non basta.
continua a scrivere..
si dai, ancora..