La prima cosa che uno scrittore deve imparare è la capacità di saper rendere ciò che ha sentito in ciò che vuol far sentire. Le prime volte gli riesce per caso. Ma dopo occorre che il talento si sostituisca al caso. C’è così una parte di fortuna nelle radici del genio (A. Camus)
Albert Camus è un uomo che si è cercato per tutta la vita. Drammaturgo, filosofo, attivista politico, giornalista, uomo inquieto e spesso frainteso, l’unico luogo in cui gli è riuscito d’incontrarsi e risolversi è stata la letteratura.
Nato nel 1913 a Mandovi, in Algeria, conosce l’estrema povertà che influenzerà il suo carattere e la sua opera quando, allo scoppio della prima guerra mondiale, suo padre è ucciso al fronte. Si trasferisce allora ad Algeri con la madre, e qui, tramite Jean Grenier, intellettuale francese in quel periodo insegnante di filosofia nella stessa scuola da lui frequentata, comincia ad avvicinarsi allo studio delle materie umanistiche, fino al conseguimento della laurea in filosofia.
Terrorizzato dalla routine, rinuncia però alla carriera d’insegnante universitario e ad un primo matrimonio durato solo tre anni. Nel 1937 mette finalmente nero su bianco i motivi principali attorno i quali il suo pensiero non smetterà mai più di aggrovigliarsi: L’Envers et l’Endroit (Il Dritto e il Rovescio) è un primo abbozzo di quella domanda di senso riguardo il destino dell’uomo che distinguerà tutta l’opera seguente dello scrittore. Presenti in questo primo lavoro anche i temi ricorrenti del sole, della solitudine, dell’estraneità dell’uomo dal mondo.
Camus, comunque, non è uomo da trovar pace: si risposa e si trasferisce a Parigi alla vigilia dello scoppio della seconda guerra mondiale, ed è proprio durante il periodo della guerra che vedono la luce le sue tre opere più complete e rappresentative, una recherche in tre tempi che s’interroga su come affrontare l’assurdità della vita (la sua mancanza di punti di riferimento, di valori assoluti, di termini di confronto): ne L’Etranger (Lo Straniero), il protagonista Meursault è, appunto, lo straniero della vita, distaccato dal mondo, capace di uccidere sotto la luce rivelatrice del sole senza provare nulla e di attendere la propria esecuzione, dopo esser stato condannato, in uno stato d’accettazione quasi messianico:
Ho riassunto Lo straniero, molto tempo fa, con una frase che riconosco essere molto paradossale: -Nella nostra società qualsiasi uomo che non pianga alla sepoltura della propria madre rischia di essere condannato a morte-. Volevo dire soltanto che l’eroe del libro è condannato perché si sottrae ad ogni gioco. In questo senso, è straniero alla società dove egli vive, erra, emarginato, nei suburbi di una vita privata, isolata, sessuale. Ed è per questo che dei lettori sono stati tentati di considerarlo come un relitto. Meursault non sta al gioco. La risposta è semplice: rifiuta di mentire. […] Non ci si sbaglierebbe molto leggendo ne Lo straniero la storia di un uomo che, senza alcuno atteggiamento eroico, accetta di morire per la verità. Meursault per me non è dunque un relitto, ma un uomo povero e nudo, innamorato di un sole che non fa ombra. Lungi dall’esser privo di qualsiasi sensibilità, è attanagliato da una passione profonda: la passione dell’assoluto e della verità. Mi è accaduto di dire anche, e sempre paradossalmente, che avevo provato a raffigurare nel mio personaggio l’unico Cristo che meritiamo. Si capirà, dopo le mie spiegazioni, che lo abbia detto senza alcuna intenzione blasfema e soltanto con l’inclinazione un po’ ironica che un artista ha il diritto di provare nei confronti dei personaggi della sua creazione.(A. Camus)
Per il teatro compone Caligola, dramma della lucida follia di un uomo, per l’appunto l’imperatore romano Gaio Giulio Cesare Caligola, che intravede il senso dell’esistenza nell’assurdità stessa, sprofondando in un bisogno di impossibilie che, se pure lo porta a reagire, lo trascinerà inevitabilmente alla morte.
Caligola: Ma non sono pazzo e posso dire perfino di non essere mai stato così ragionevole come ora. Semplicemente mi sono sentito all’improvviso un bisogno di impossibile. Le cose così come sono non mi sembrano soddisfacenti. […] È vero, ma non lo sapevo prima. Adesso lo so. Questo mondo così com’è fatto non è sopportabile. Ho bisogno della luna, o della felicità o dell’immortalità, di qualcosa che sia demente forse, ma che non sia di questo mondo.
Elicone: È un ragionamento che sta in piedi. Ma, in generale, non lo si può sostenere fino in fondo, non lo sai?
Caligola: È perché non lo si sostiene mai fino in fondo che non lo si sostiene fino in fondo. E non si ottiene nulla. Ma basta forse restare logici fino alla fine. (atto I, scena IV – Caligola)
Viene dato alle stampe infine nel 1942 Le Mythe de Sisyphe (Il Mito di Sisifo), che va dritto al centro del problema: nel momento in cui riconosciamo alla vita nessun altra certezza se non quella di essere assurda, vale la pena viverla? E come? Camus analizza il problema, senza più alter ego, senza più cornice, e si risolve in favore dell’azione: in assenza di senso, la révolte tenace è tutto quello che resta all’uomo.
Vivere un’esperienza, un destino, è accettarlo pienamente. […] Vivere è dar vita all’assurdo. Dargli vita è anzitutto sapere guardarlo. Al contrario di Euridice, l’assurdo muore soltanto quando gli si voltano le spalle. Così, una delle posizioni filosofiche coerenti è la rivolta, che è un perpetuo confronto dell’uomo e della sua oscurità; che è esigenza di una trasparenza impossibile, e che mette in dubbio il mondo ad ogni istante. […] Si può credere che il suicidio sia la rivolta, ma a torto. Il suicidio è l’accettazione del proprio limite. (Le Mythe de Sisyphe)
Queste sue posizioni filosofiche verranno in quegli anni ingiustamente accostate a quelle esistenzialiste di un suo eccellente contemporaneo, Jean-Paul Sartre, dando inizio ad una polemica da cui Camus, con suo grande rammarico, non riuscirà mai pienamente a distaccarsi.
Nel frattempo, durante la guerra, entra a far parte della Resistenza nella cellula “Combat”, svolgendo attività d’informazione e giornalismo clandestino e successivamente lavora ad un nuovo ciclo di romanzi incentrati sull’azione collettiva (la révolte tenace, appunto) come risposta al male insormontabile e senza ragione che la vita lascia capitare: La Peste (1947) e Les Justes (I Giusti, 1950). Ai bordi ci sono malattie, terrorismo, antichi interrogativi e, al centro, c’è l’uomo.
A quarantatre anni, nel 1957, diviene il più giovane premiato a Stoccolma con un Nobel alla Letteratura. Uomo alla continua ricerca di una vita onesta, autentica, che si sente messo in gabbia e frainteso dal pubblico, che lo ama e lo detesta, trova una morte che sembra quasi stia lì a sottolineare l’assurdità che per tutta la vita Camus ha cercato di descrivere, e da cui ha cercato di salvarsi: nel 1960, di ritorno a Parigi col suo editore, si schianta con la macchina contro un albero, nei pressi di Villeblevin. Restano di lui Meursault, Caligola, Sisifo, e i tanti personaggi ardenti, instancabili trascinatori della loro vita attraverso una nebbia d’intenti indistinta ma a tratti bagnata di un sole mediterraneo tanto caro a Camus, in una contraddizione che lui spiegò così: tutto ciò che esalta la vita accresce allo stesso tempo la sua assurdità. Un’assurdità che, però, vale la pena di essere vissuta nella consapevolezza che l’uomo, vivendo, in questo suo “sforzo inutile”, diviene più grande del suo destino. Dunque:
Occorre immaginare Sisifo felice. (A. Camus)