È il portico di un casolare deserto che emerge controluce, dal sogno in bianco e grigio, unico sollievo dal sole cocente che ha imbiancato la terra togliendole qualsiasi colore, mentre intorno solo silenzio, solitudine, sonnolenza, e il vento secco che fa muovere i pochi rotolacampi nell’immota desolazione: potrebbe essere un’ipotetica finestra sul mondo sfumato e narcotico di Marissa Nadler, Ofelia country & folkche sembra perennemente sprofondare in cinematiche reverie, armata di chitarra acustica, voce ed effetti d’atmosfera.
July è il suo sesto album, ancora una volta un disco riuscito e che lascia quasi senza parole per coerenza, qualità del songwriting, e soprattutto per l’omogeneità di uno stile che non ha subito grandi scosse fin dal suo esordio del 2004,Ballads of Living and Dying.
Nadler sembra essere uno di quegli artisti che, avendo trovato presto la sua voce, non cerca di sperimentare attraversando generi, stili, modi a lei estranei al fine di infondere originalità, preferendo invece scavare ed approfondire la propria relazione con quella voce, forse cercandone l’essenza. Per un ascoltatore contemporaneo, questo approccio può suscitare a tratti un senso di noia, a causa della ripetizione che coinvolge le sue opere: gli arpeggi della sua chitarra acustica, dal 2004 al 2014, messi in sequenza canzone dopo canzone, farebbero emergerebbe una sorta di spirale infinita, e sembrerebbe quasi di ascoltare perennemente lo stesso pezzo; la sua voce, stilizzata, delicata, mai passionale, pare recitare costantemente la medesima filastrocca. Ma gli arpeggi hanno una funzione ipnotica che è funzionale a far scivolare l’ascoltatore dentro la narrativa dei pezzi, sempre sognanti, mentre il canto è abilissimo nel catturare sfumature emotive, spesso toccanti per bellezza e dolcezza.
July è stato prodotto da Randall Dunn, già manipolatore di suoni per Six Organs of Admittance e Akron/Family, ma conosciuto soprattutto per i suoi lavori per band doom metal quali Earth e Sunn O))). Lo sconfinamento potrebbe sembrare azzardato, ma in passato la timida Marissa era già entrata in punta di piedi in ambito Black Metal, collaborando a progetti di questo genere quali Xasthur e Locrian. Il lavoro che Dunn compie per la dream-folkster bostoniana è eccellente: se negli album precedenti, con poche varianti, c’erano la deliziosa cantilena della sua voce e il carosello eterno della chitarra, contornati da arrangiamenti in sordina, nebbiosi e spettrali, qui il tutto è avvolto in una maggiore limpidezza pur nell’esperienza immersiva dei suoni, nel corruscarsi dell’atmosfera, fra il calor bianco delle chitarre elettriche e delle slideJuly anche una forte sfumatura personale ed emotiva, coagulandosi intorno a temi di amori andati a male, mentre i riferimenti, ancora chiarissimi, a Leonard Cohen, Townes Van Zandt e Joni Mitchell, sono così sublimati da vagheggiarsi semplicemente come spettri, ulteriori cenni di sogno.
“Drive (Fade into)” apre l’album, dilatandosi in suoni densi e trasparenze intorno agli arpeggi e alla voce, per un accenno di storia che sa di noir americano e di fuga nella notte. La maggiore immediatezza dei toni del precedente album ‘The Sister’ è fin da subito erosa da un filtro cinematico vagamente lynchiano/badalamentiano, che si elabora ulteriormente nella sinistra ballata “1923”, intensissima ed emozionante, con un ritornello che si apre ad una dolcezza atemporale, chiamando l’oggetto d’amore a ritornare da un secolo passato. La voce è quasi sempre raddoppiata in due linee melodiche parallele, con un effetto armonico straniante, che riporta da un lato alla tradizione della ballata country e dall’altro ai madrigali wave dei Cocteau Twins. Il tutto ancora più scarnificato, rallentato e onirico. Il centro dell’album sembra essere il singolo “Dead City Emily”, che si accende di suggestioni psichiche fra sintetizzatori ed effetti avvolgenti, mentre Marissa forse canta dello sdoppiarsi in una Emily come fosse il lato oscuro di una crisi bipolare. Ci sono un paio di pezzi, i più brevi del lotto, in cui Il canto è supportato da accordi pianistici invece che dall’acustica, e se “I’ve Got Your Name” pare avere più una funzione di collegamento e pausa fra brani chitarristici, la chiusura di “Nothing in My Heart”, nella sua estrema semplicità, ha la forza di una di quelle ballate waitsiane che strappano il cuore, con la loro confessione di solitudine ed abbandono.
In mezzo a queste, altre canzoni, sempre toccanti, che esplorano le sfaccettature dell’isolamento, delle tensioni relazionali, del risentimento e dell’incomunicabilità, trascese nella dimensione del racconto folk (e quindi archetipico) che la suggestione della musica e del canto iniettano in ogni storia. A volte il senso di ripetizione e qualche lungaggine sembrano minare la forza di un lavoro che, lirico e curatissimo, è forse fra i migliori della cantautrice. Ma dipende soprattutto dalla disposizione dell’ascoltatore, da quanto si è pronti ad accedere a questo tipo di reverie, per lasciarsi trasportare, senza pericolo, in zone in cui anche i nostri lati oscuri emergono dalla luce straniante dei suoni.
Sacred Bones (USA) / Bella Union (Europe)
- Drive
- 1923
- Firecrackers
- We Are Coming Back
- Dead City Emily
- Was It a Dream
- I’ve Got Your Name
- Desire
- Anyone Else
- Holiday In
- Nothing in My Heart