Gli scettici dell’arte concettuale, quelli che, per capirci, davanti a un Fontana commentano “Saprei farlo anch’io”, troverebbero non pochi problemi a confrontarsi con l’opera di Marina Abramović. Eppure si fa veramente un gran parlare di quest’artista balcanica, nata a Belgrado nel 1946, e se ne fa un gran parlare a ragion veduta, perché Marina Abramović, con il suo Leone d’Oro alla biennale di Venezia del ’97, la enorme retrospettiva del MoMA del 2010, e la performance attualmente in mostra al PAC di Milano, è universalmente riconosciuta e premiata come una colonna portante dell’arte performativa, e in generale dell’arte contemporanea.
La storia di Marina inizia negli anni ’70, quando dopo la frequentazione dell’Accademia di Belle Arti di Belgrado, si trasferisce ad Amsterdam e incontra Ulay, artista tedesco nato nel suo stesso giorno, con il quale intesserà un proficuo rapporto amoroso e artistico durato ben 12 anni. In una delle opere che hanno realizzato assieme, Relation in time (1977), Marina e Ulay sono rimasti fermi, legati assieme per i capelli, per ben 17 ore ripresi da una telecamera.
Da due personaggi così non ci si può aspettare una separazione normale, fatta magari di messaggi astiosi nella segreteria telefonica e di porte sbattute in faccia. Ed ecco che per dirsi addio, sia sul piano artistico che sul piano sentimentale, Marina e Ulay hanno dovuto camminare per tutta la Muraglia Cinese. L’opera si chiama The great wall walk, e ha preso vita nel 1988, nel corso di 90 giorni. Nelle intenzioni iniziali degli artisti, che spiegano di aver scelto proprio la muraglia cinese perché unica costruzione, assieme alle Piramidi, ad essere visibile dallo spazio, al termine della lunghissima camminata, avrebbero dovuto incontrarsi a metà e sposarsi. Marina, in quanto essenza femminile e pertanto legata all’acqua, sarebbe partita dall’estremità orientale della Muraglia, sulle sponde del Mar Giallo, mentre Ulay, principio maschile e rappresentato dal fuoco, dall’estremità occidentale situata nel Deserto del Gobi. Ma qualcosa durante il lungo concepimento di quest’opera (sono stati necessari infatti molti anni per ottenere i permessi dal governo cinese) è andato storto, la relazione ha smesso di funzionare e alla fine i due artisti, dopo aver camminato per 2500 km ciascuno, invece di sposarsi si sono detti addio.
Autocontrollo e perdita del controllo, femminilità, masochismo, esplorazione del limite, ma anche le tradizioni e la guerra nei Balcani: i temi rappresentati nelle performances della Abramović esplorano il difficile rapporto tra l’uomo e il proprio corpo, inteso nello spazio, nel tempo e nella società, nella sua interezza e nella sua vulnerabilità, spesso esposto nudo a traumi di ogni tipo e ferite, esaurito nella sua energia da danze rituali infinite o gesti meccanici ripetuti fino allo sfinimento, regalato al suo pubblico come strumento e come fine. Il minimo comun denominatore delle performances della Abramović, tante e diverse tra loro, è il fatto che scatenano sentimenti violenti nello spettatore: non a caso la parola più utilizzata dai commentatori in lingua inglese per descrivere gli spettacoli a loro offerti dall’artista è disturbing, che rende solo parzialmente l’idea con l’italiano disturbante; l’arte di Marina Abramović sconvolge, incuriosisce, intriga e smuove l’essere umano dalle viscere.
Nella sua prima performance, Rhythm 10, datata 1973, Marina Abramović è inginocchiata per terra e ha a disposizione davanti a sé dieci coltelli. Con ognuno di questi si sferra dei colpi tra le dita della mano aperta poggiata sul pavimento, colpi ritmici, finché non sbaglia e si colpisce la mano tagliandosi. Ad ogni taglio cambia coltello, fino ad averli utilizzati tutti e dieci. L’intera sequenza viene registrata su un’audiocassetta, che l’artista riascolta durante la performance per ripetere la stessa esatta sequenza una seconda volta, provando a tagliarsi negli stessi momenti e producendo gli stessi suoni, in modo che il passato e il presente si sovrappongano e si mescolino, fondendosi.
In Rythm 0 (1974), svoltasi a Napoli, alla Galleria Studio Morra – molte altre sono le esibizioni dell’artista che hanno preso luogo in Italia – la Abramović è rimasta in piedi, immobile per sei ore, completamente nelle mani del suo pubblico. Davanti alla donna erano disposti svariati oggetti da lei stessa scelti, oggetti che possono provocare piacere e oggetti per provocare dolore (tra gli altri, una rosa, del miele, una frusta, una piuma, e addirittura una pistola e un proiettile).
Il pubblico era autorizzato a usarli in qualsiasi modo sul corpo dell’artista, che ha fatto della passività più totale una risposta alle accuse circolanti in quel periodo di un utilizzo del corpo troppo aggressivo e quasi masochistico. La reazione del pubblico è un altro aspetto su cui l’analisi dell’opera si è molto soffermata: dapprima le interazioni con l’artista erano quasi timide, per poi evolversi in un gioco pericoloso e spregiudicato. La Abramović è stata spogliata e ferita in svariati modi, mentre alcune donne le asciugavano le lacrime. Il culmine della performance si è raggiunto quando le è stata messa in mano la pistola carica, con il dito sul grilletto. Ma poi… “Dopo esattamente sei ore, -racconta l’artista – come programmato, mi sono alzata e ho cominciato a camminare verso il pubblico. Tutti sono corsi via, per scappare dal confronto diretto.”
Chi ha sufficiente curiosità e pazienza può guardare QUI altre quattro sue performances degli anni ’70.
Circa a metà della carriera dell’artista balcanica si può collocare l’opera che, performata a Venezia, le ha permesso di vincere il Leone d’Oro alla Biennale. La Abramović, nata in quella che poi è diventata la Serbia, viveva già da tempo all’estero allo scoppio della guerra in Bosnia, e ha raccontato di come moltissimi artisti abbiano reagito immediatamente producendo i loro lavori contro la guerra, mentre per lei, così legata a quei popoli e a quei luoghi, fosse troppo difficile esprimersi a riguardo. Il risultato di questo periodo difficile è Balkan Baroque: l’artista, seduta su un’enorme pila di ossa animali, le lava con acqua e una spazzola di metallo. Il caldo estivo soffocante provocava un odore nauseabondo, e dalle ossa fresche uscivano vermi: è impossibile lavare via il sangue, lavare le coscienze, sporcate dall’orrore della guerra che è la stessa ovunque, senza differenze di epoche o di popoli coinvolti.
Il tempo che avanza, la maturità, e forse anche le numerose ferite incise sul suo corpo nel nome dell’arte, hanno portato Marina Abramović a prediligere forme meno cruente, ma non per questo meno shockanti, di comunicazione e di incontro col suo pubblico. Ed è così che si arriva a The Artist is present, ormai famosissima retrospettiva organizzata dal MoMA in onore dell’artista, che si è esibita in un’altra delle sue colossali performances. Per tutta la durata della mostra, molte ore al giorno (un totale stimato di 736 ore), l’artista è rimasta seduta su una sedia, perfettamente impassibile e in silenzio, mentre davanti a lei su un’altra sedia si avvicendavano i suoi spettatori, invogliati a sedere e a fissarla in silenzio per tutto il tempo che volevano.
L’opera ha avuto un enorme successo, e grazie al lavoro del fotografo Marco Anelli, che ha fotografato un ritratto per ognuno dei partecipanti all’opera, sono rimasti immortalati anche moltissimi visi in lacrime (esiste addirittura un blog che li ha raccolti: Marina Abramovic made me cry), mentre tutti i ritratti sono visibili in questa galleria. Divertitevi a cercare i volti dei personaggi famosi! (Un indizio: tra gli altri ci sono Michael Stipe, Bjork e Patti Smith)
Durante The Artist is present non è mancato il momento romantico: a sedersi di fronte a Marina, infatti, è arrivato anche Ulay, il suo ex compagno.
L’obiezione più facile che può venire in mente è: adesso anche sedersi e fissare davanti a sè è considerato arte? La risposta è sì, visto che la cultura nella quale siamo immersi ogni giorno è ossessionata dalle celebrità e dai reality show, e forse per questo, essendo già abituati a vedere tutto, sono proprio le cose più semplici e in apparenza prive di senso a shockarci di più e a penetrare più a fondo nel nostro subconscio, fino a risultare “disturbing”. Marina, guardando tutte quelle persone senza sapere nulla di loro, ma senza i filtri del dialogo, della comunicazione, o ancor peggio, senza i filtri della tecnologia che ci imponiamo quotidianamente, è arrivata forse a conoscere ciascuno di quei volti meglio di quanto non possa un amico o un parente. E, in fondo, è proprio quello che forse noi non riusciamo a fare più.
“Credo che l’artista debba essere un disturbatore e noi dobbiamo interrogare la bellezza. Piero Manzoni ha detto: Non mi interessa che la mia arte sia bella o brutta. Deve essere vera. È così”.
Per approfondire ulteriormente puoi visitare la pagina dell’artista su Artsy.