Alessandro Mannarino è la voce della vecchia borgata romana ormai estinta, di quella dell’Accattone pasoliniano e dei bagni nel Tevere. Rozza, sporca e poco educata, in cui la spontaneità delle parole vince sui virtuosismi e le ricercatezze musicali da metropoli. Al monte è un album interessante ma, soprattutto, un cammino difficoltoso che non sai come affrontare. I nove brani di cui si compone appaiono come un punto di collegamento fra i lavori che lo hanno preceduto, rendendo chiara la presenza di un percorso artistico del cantautore romano. C’è la componente più movimentata e spensierata (Malamor, L’impero) e quella più raccontata, in cui la musica serve a giustificare la sua presenza su cd piuttosto che su un libro di letteratura. È uno spettacolo complicato, dalle numerose variabili, in cui gli spettatori non sanno se stare seduti o in piedi, se sentirsi davanti a un falò sulla spiaggia o in una taverna a sentire un cantastorie. Dimensione paradossale e incerta che rischia di danneggiare tutto il lavoro che Mannarino ha realizzato.
Al monte è un disco che presuppone qualcos’altro ma di cui non se ne trova traccia. Sono soltanto nove i brani di cui si compone, assorto da un gusto minimale che cozza con quell’idea della borgata, da sempre abbondante, spontanea e lontana da macchinazioni discografiche. Quello che ne esce fuori ha un sapore amaro e diverso da quel Mannarino a cui perdonavamo i giri di chitarra semplici perché, nel suo stile, tutto si compensava e si univa in maniera poetica. Al monte, invece, non soltanto per la sua brevità, appare come un disco dettato dalla necessità di produrre qualcosa, scimmiottando il repertorio passato e senza portare qualcosa di deciso, che non ha a che fare con lo stile a cui ci eravamo affezionati.
Quello appena detto, però, non deve oscurare un aspetto che giustifica, in parte, l’intero lavoro e le scelte che sono state fatte. Il Mannarino di Al monte è più oscuro, serio e disincantato. Riesce, in qualche modo, a restituire una certa importanza al duro cammino in salita che stiamo attraversando, quello che serve per uscire dal bosco e raggiungere la vetta, di nuovo: «Mi riduco come un animale / per non pensare / dove va a finire / il profumo delle stelle / che da qui non si sente» dicono Le stelle, capitolo conclusivo di questo album. C’è questo disincanto, sempre un po’ romantico, di un ragazzo che guarda alla luna con speranza, in un ambiente colorato e piacevolmente gipsy, che però non porta da nessuna parte. Come se Mannarino, a differenza di altri, di quelli che cantano la crisi con tristezza o speranze di uscirne, stia cercando la sua dimensione accettando il momento che vive, in quel modo tipicamente nostrano e da tempi passati, di godersi quello che passa e dargli una forma di poesia e, quindi, di importanza. Perché in ogni caso è un momento che si è vissuto e che ci resta, volenti o nolenti, attaccato addosso. Perché un monte è un po’ una vita e, ognuno, deve scalare la propria.