Se ogni film di Woody Allen dal 2010 in poi vi ha fatto urlare “Perché?”, quest’anno vi ricrederete, e ricaccerete quel tuono dritto in gola.
A una certa età non è scontato (men che meno dovuto) sfornare capolavori, soprattutto per un artista generoso come Allen, con quasi 50 pellicole all’attivo.
Una carriera piena ma piana, marcatamente coerente dal punto di vista stilistico, squarciata da poche (e sfortunatamente malriuscite) sperimentazioni o licenze; un regista a cui piace stare sul pezzo a modo proprio, guardandosi allo specchio, tra autoreferenzialità e humor.
Il capitolo più controverso della storia cinematografica recente di Woody è sicuramente Midnight in Paris. Chi vi ha scorto gli antichi fasti del metacinema di La rosa purpurea del Cairo, chi ha decretato che di calderoni del genere Allen ne aveva già fatti troppi, e che erano tutti meglio di quest’ultimo, per giunta. Gusti, opinioni, prospettive. Per il resto, gli ultimissimi lavori, eccezion fatta per Whatever Works, sono un concatenarsi di disastri, senza soluzione di continuità.
Appurata la (legittima) sfiducia maturata da pubblico e critica nell’ultimo periodo, analizzerei una serie di semplici motivi per cui farsi comunque sopraffare dalla curiosità e andare a vedere il film.
-Protagonisti
Fuori Alec Baldwin, dentro Colin Firth. Considerazioni vane: mossa azzeccata.
Emma Stone ampiamente sufficiente. Calata fino ai capelli nella sua maschera greca.
-Sviluppo Narrativo
Lineare, in pieno stile Woody. Un paio di ribaltoni, addii parlati e ricongiunzioni subitanee. Lo spazio di crescita del protagonista, secondo lo schema classico dell’opera di formazione, segue una parabola ascendente, scandita da diversi inciampi. Tutto molto scontato, ok. Ma Allen è un regista che ha sempre spinto sull’elemento della riconoscibilità, che, quando fa comodo alla critica, si trasforma in prevedibilità. Non mi risulta, agli annali, che si siano fatte crociate nell’arco degli anni ’80: eppure era un periodo in cui lo schema tipico andava in loop, regolarmente. Forse dovrò squadernare meglio.
-Colonna Sonora
Entrare a proiezione iniziata in una sala a caso e sapere di chi è il film senza neanche alzare gli occhi sulle immagini. Ecco cos’è una colonna sonora azzeccata. Ecco cosa vuol dire spiattellare Leo Reisman sui titoli di testa. Provare per credere (attenti a non cadere e a Massimo Boldi, per chi frequenta gli affollati multisala).
È vero, Woody Allen sta campando un po’ di rendita ultimamente, continuando a sfornare pasti surgelati, copie sbiadite, collage malriusciti. Questa volta, però, ho l’impressione che l’auto-plagio possa definirsi autoriferimento, e che la parola fallimento, a questo giro, possa suonare come la bestemmia ingrata di chi ama sparare a zero sui (quasi) ottuagenari, un po’ come andava di moda il mese scorso con Adieu Au Language, altro film perfettamente inquadrabile nell’ultima fase del cinema di JLG, ma che gli esperti hanno, per sport, collocato ai margini.