La prima volta che ho incontrato dal vivo i Low sulla mia strada musicale è stato in apertura al concerto dei Radiohead del 23 Luglio 2003, al Ferrara sotto le stelle. Mai inizio di relazione amorosa fu più travagliato, perchè i miei occhi e le mie orecchie erano tutte per Thom e co. e anche quelle dei seimila che riempivano piazza Castello, tanto che la bella performance della band di Duluth venne rovinata dalla fretta del pubblico di vedere sul palco i propri beniamini. La sindrome del gruppo di apertura gioca, ahimè, brutti scherzi anche a band di una certa, indiscutibile caratura. Peccato.
Il teatro dell’Antoniano si trova poco fuori dalle mura del centro cittadino di Bologna, ha quell’aspetto spartano da cinema di provincia che non può che farti provare affetto e farti sentire a casa. Il concerto è sold out da diversi mesi e lentamente le persone iniziano ad arrivare sul posto. Siedo e mi preparo psicologicamente all’opening-act del live affidata a Lullabier, cantautore veneto, il cui nome e il cui stile si ispirano totalmente alla band americana. Peccato che le sue canzoni non mi prendano neanche un po’: è emozionato, si vede, quasi non riesce a cantare. Si esibirà una mezz’oretta tra la noia generale per le sue nenie che tutto sembrano fuorchè originali. Probabilmente la sindrome del gruppo spalla colpisce ancora, ma questo lo scopriremo solo vivendo.
Il palco si svuota e la scenografia scarna, fatta dai soli strumenti si anima con la proiezione di un grosso orologio digitale che segna il countdown per l’inizio del live. I Low salgono sul palco, confondendosi quasi con i tecnici, mostrando tutta l’umiltà che li contraddistingue, imbracciano gli strumenti, danno gli ultimi ritocchi all’accordatura e appena il contdown sta per terminare, le luci del teatro si spengono e le note cadenzate di Plastic Cup si fanno spazio sul palco. Sono le 22 precise. E’ subito silenzio e attenzione, l’occhio sbircia i filmati in bianco e nero dietro la band, le orecchie si lasciano incantare dalla bellezza della loro musica. L’incipit del concerto è tutto dedicato al nuovo album: intimità e folk trasognante. Il brano di apertura e la successiva On My Own servono un po’ da riscaldamento ai nostri, che inizieranno a carburare seriamente con le successive Holy Ghost e Clarence White. Le voci sublimi di Alan e di Mimi si alternano, si inseguono e si intracciano in un crescendo che riesce a strappare ogni volta un brivido.
E’ la dinamica il punto forte dei Low, quel loro modo di approcciare i brani con un carisma pacato e trasformarlo poco dopo in tensione elettrica, come l’atleta che prima tende i muscoli e poi li rilascia lentamente, in uno sforzo liberatorio. La dimensione teatrale ben si presta alla band americana, perchè consente di godere di ogni singolo passaggio armonico, di ogni finezza espressiva, di ogni nota percossa dalla chitarra, di ogni spazzolata di batteria o pizzicata di basso.
Un tuffo nel passato ce lo regala Monkey, elettrica e tesa, quasi alla Velvet Underground. Il pubblico in sala apprezza la prima incursione nel passat e lo farà molto anche in seguito. La sapiente scaletta farà ascoltare gran parte di The invisible way, non trascurando dischi come The Great Destroyer, C’mon e Drums and Guns. Ce n’è un po’ per tutti i gusti insomma.
E’ su brani come Waiting che ti rendi conto di cosa sia veramente la sensibilità musicale, quel modo così autentico di misurare ogni movimento sulla tastiera dello strumento, di farlo con coscienza, quella profondità nell’usare la voce. E’ da ora in poi che il live raggiungerà i suoi climax, dando sfogo ad un set centrale in cui ci sarà davvero poco modo di respirare. I Low mettono in fila una ieratica Especially Me e la notturna Witches, per poi tornare al presente con una commossa Mother e una traognante Just Make It Stop. Ma è con la tensione di Pissing che non si riesce proprio a sfuggire ai brividi. La musica ti investe torbida e violenta, come un’esecuzine marziale. E’ inseguirsi di feedback e aumentare di tensione, fino all’esplosione finale. Difficile da spiegare, va provato sulla propria pelle. La sala non resiste e scoppia in un applauso liberatorio, rotto solo da quel capolavoro incredibile che è Words sussurrata e magnetica, così lontana nel tempo eppure così vicina, sentita.
Tre pezzi meravigliosi come In Metal, Dragonfly e Walk Into The Sea chiudono il live e i tre abbandonano il palco, ma inutile dirlo, tutti li attendono per un bis più che doveroso. Dopo pochi minuti risalgono sul palco, Alan si avvicina al microfono e intona Murderer e a quel punto puoi pure dire addio alla compostezza, e scioglierti comodamente nella tua poltrona con la pelle d’oca, a un passo dalla commozione. Il finale vero e proprio del live è affidato a Last Snowstorm Of The Year ed a I hear…Goodnight che lascia inequivocabilmente intendere che non ci sarà nessun ritorno. Il trio del Minnesota, saluta il pubblico, ringrazia tutti, dall’organizzazione, al cantautore che ha aperto il live ed abbandona definitivamente il palco.
Ci si alza con poco senso dell’equilibrio, come succede dopo le grosse emozioni, ma ci si alza con una chiara e netta certezza: I Low non sprecano mai una nota, non ne aggiungono mai una di troppo nè una di meno, sono alfieri del minimalismo, sanno dare il giusto peso ad ogni fraseggio e ad ogni colpo di batteria, ad ogni accordo di piano, i Low suonano sempre e solo le note giuste. Ed è per questo che vanno assolutamente venerati.
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Setlist
- Plastic Cup
- On My Own
- Holy Ghost
- Clarence White
- Monkey
- Waiting
- Especially Me
- Witches
- Mother
- Just Make It Stop
- Pissing
- Words
- In Metal
- Dragonfly
- Walk Into The Sea
Encore
- Murderer
- Last Snowstorm Of The Year
- I Hear…Goodnight
In effetti gran bel concerto anche se mi sarebbe piaciuto sentire qualche pezzo in più di “I Could Live In Hope”.
Di “I Could Live in Hope” non potremo mai stancarci. Tuttavia ho apprezzato la loro scelta di omaggiare, anche se in forma minima, molti del loro bellissimi album. Speriamo di rivederli presto!