La prima volta che ho sentito Lo Stato Sociale ero a una piccolissima festa del partito democratico emiliano, vicino casa, tra le zanzare e l’odore di rane fritte. Si esibivano davanti a una ventina di persone che, a fatica, riempivano lo spazio, su un palco inesistente, molto diverso da quelli in cui li avrei rivisti poco tempo dopo, quando Turisti della democrazia da piccola novità sconosciuta era diventato una specie di disco cult capace di spaccare in due la critica non solo musicale. Era estate allora, sarà estate (il due giugno) quando uscirà il secondo album L’Italia peggiore. Non è, però, una questione di stagioni, che tanto non esistono più. Le cose sono cambiate, sono arrivati i sold out e il successo che, per quanto qualcuno potrà storcere il naso, si sono guadagnati. È diventato, contemporaneamente, molto difficile parlare di loro perché, da una parte, l’ortodossia dei fan vuole sentire solo cose belle e chi li critica sbaglia, sempre e comunque. Dall’altro lato della barricata c’è, invece, la fazione degli haters e della critica più purista, più impegnata a parlare di questioni metafisiche che musicali, più su quello che si muove intorno al disco rispetto a quello che c’è dentro. Discorsi autoreferenziali che non soddisfano nessuno, fomentati da quel concetto di “Non sei Lester Bangs o Carlo Emilio Gadda” che minimizza il ruolo di chi cerca di fare critica (con cui, volente o nolente, Lo stato sociale deve fare i conti) e di quelli da “È una merda” per partito preso, che sono entrambi aut aut di una linea più politica che musicale e parecchio triste, che mettono in dubbio l’oggettività di chi presenta quei contenuti, più che i contenuti stessi.
L’Italia peggiore è un disco da estate con i mondiali di calcio, perché ci si può permettere di non pensare o di ridere delle alterne fortune di quella pessima nazionale culturale che è l’Italia ultimamente, senza prendersi troppo sul serio. A chi pensava che fossimo una nazione dedita a calcio e piagnistei tocca cambiare idea, se non siamo i primi in Europa per il Pil o per la bella politica, di certo, siamo campioni nel prenderci per il culo e Lo stato sociale ci riesce benissimo, presentando ancora una volta la stessa lista di caricature presenti nel primo album. L’indie che poi non è così alternativo (Forse più tardi un mango adesso), il sinistrino disilluso e decadente che vota Pd, l’intellettuale vascobrondiano o reppuso (Questo è un grande paese) e la groupie modaiola (Instant Classic) mostrati tutti nella loro pochezza apparente. Accanto alle caricature ironiche, ma non troppo, i drammi e le vite dei componenti della band, fra l’amore e la frustrazione, di cui C’eravamo abbastanza sbagliati diventa scudo e spada, per ripararsi dalle critiche e togliersi quei sassolini dalla scarpa che il Mi sono rotto il cazzo dell’album precedente, evidentemente, non aveva esaurito. È sempre un attacco a metà che, per quanto voglia colpire certe abitudini che ci circondano, nelle quali tutti bene o male ci finiscono, poi, per paura, si ritira dietro la maschera dell’ironia facile, lasciando esplodere il colpo nel vuoto. Lo stato sociale cerca di recuperare da certi stili alcune componenti ma poi non le approfondisce mai in una maniera definitiva, rimanendo a metà strada, così da non lasciare insoddisfatto nessuno. C’è la denuncia sociale di tipo caricaturale dei primi Zen Circus ma da cui non si prende il coraggio. C’è l’ironia di Rino Gaetano ma non è tale da diventare poesia. Ognuno fa le sue scelte e, per ora, i fan stanno dando ragione a loro e, questo, è innegabile. Da tutto questo discorso si distacca Linea 30, racconto e ricordo della strage di Bologna del 1980, di cui è giusto premiare il tentativo di parlare di argomenti così scomodi da venire dimenticati, ma che ha chiari limiti sia musicali che narrativi. Un tentativo stilistico da Offlaga Disco Pax ma che non si avvicina neanche un po’ alla prosa di Collini né alle musiche di Fontanelli e Carretti, che stanno su tutt’altro pianeta. Questa componente di ricordo, però, è sempre stato uno degli aspetti che più mi hanno coinvolto delle esibizioni de Lo Stato Sociale, che sia sincero o meno, è una caratteristica che poche band possiedono.
È difficile realizzare una valutazione de L’Italia peggiore perché, oltre all’ironia e a nuove (neppure troppo) situazioni, la band bolognese non introduce nulla di diverso, sia nei testi che nella musica, rispetto all’album precedente. La riproposizione continua dello stesso movimento elettronico è però una ricetta che ha già funzionato e che funzionerà di nuovo, perché semplice e coinvolgente, ma ciò non significa che, questo, basti a renderlo un buon disco. Il numero di download del primo singolo e, di sicuro, di quelli dell’album completo darà ragione a loro e una parte di questa generazione continuerà a ballare e a sudare sotto queste note. Qualcuno ha scritto che non ce li meritiamo per forza, che possiamo avere di meglio. Probabilmente è la verità ma, per ora, nessuna altra band di questo genere ha avuto la stessa capacità di prendersi questo spazio lasciato vuoto da tante, troppe, cose. Musicali e non.