Avere a che fare con Robert Allen Zimmerman è difficile, per cui bisogna ridurre il raggio d’azione quando si parla di lui: vuoi parlare della sua vita? Dimenticalo, a meno che tu non voglia raccontarla con un taglio originale, come hanno scelto di fare Haynes e Moverman per I’m not there, biopic che narra la storia di Bob Dylan attraverso sei protagonisti diversi, perché uno solo probabilmente non riusciva a contenere interamente l’uomo Robert, e il suo spirito continuamente contradditorio. Vuoi parlare di un suo disco? La questione resta complicata, non riesci a definirlo un disco di Dylan, ogni secondo assume una sfumatura diversa e fugge via, e poi dovresti incrociarlo a una qualche rivoluzione del sound o un messaggio profondo, e anche qui coglierne ogni volta tutti gli aspetti risulterebbe difficile. Devi parlare di lui, dell’incidente in moto, di come abbia assolutamente influenzato le sue mattinate anche quello, e poi devi raccontare la sua vita, il dissidio quotidiano di dover fuggire le folle, il tentativo di salvare la sua privacy dalle telecamere. Devi quantomeno far fare un giro alle orecchie nel folk di Woody Guthrie, e di come venga letteralmente esportato alle folle. Devi parlare di un messaggero, di uno di quei primi casi di musicista famoso di quegli anni, non puoi prescindere da questo. Devi parlare delle parole, della rivoluzione della lingua americana di Dylan, di quel modo di cantare che cambia a ogni disco di Dylan, e anche quando avrai finito di ripercorrere tutte queste tappe sarei ancora all’inizio. Ci vorrebbe un Chronicles di venti volumi per Bob Dylan. E comunque lui lo butterebbe in cantina senza neanche sfogliarlo. Per questo qui affrontiamo ”solo” una canzone. Che poi è uno dei capolavori di Zimmerman, quella che secondo il quotidiano Rolling Stone (e indovinate perchè si chiama così?) è solamente la canzone più bella di sempre: Like a Rolling Stone.
Rollin’ Stone: due parole che diventano fuoco
Negli anni ’20 nel Mississipi si cantava un vecchio blues, detto Catfish Blues, il primo a registrarlo fu Robert Petway nel 1941: a quei tempi i canti americani del sud (spesso canti di origine nigger) passavano di bocca in bocca e di chitarra in chitarra, perciò non c’era da stupirsi se poi finivano anche per cambiare parole da una bocca all’altra. Erano viaggiatori questi cantautori, quelli che si direbbero i veri hobo americani. Il testo del blues è una specie di invocazione, in questo genere si ripetono sempre spesso parole come Lord o Mama, e si gioca tutto su quel cantato particolare alla ‘Play ‘em man, play ‘em a long time. Qualche anno dopo, siamo alle porte dei Cinquanta, Muddy Waters riprende la vecchia ballata blues e la incide col nuovo titolo, Rollin’Stone: è la prima volta che in America si fa strada quella strana espressione della pietra che rotola. Il testo di Muddy diventa così: ”Well, my mother told my father / just before hmmm, I was born / I got a boy child’s comin / He’s gonna be, he’s gonna be a rollin stone”. Sempre in quegli anni, nel ’49, Hank Williams rilascia una famosa versione di Lost Highway (di Leon Payne), l’attacco è questo: ”I’m a rolling stone, all alone and lost / For a life of sin, I have paid the cost”. Con un pezzo del genere in sottofondo puoi perderti a notte fonda dappertutto e trovare la direzione. Dylan canterà la ballata di Williams nel ’67, davanti alla telecamera di Pennebaker. E ovviamente se i Rolling Stones si chiamano così è per colpa di Muddy Waters, e se la rivista più famosa del mondo rock porta il nome della pietra rotolante è sempre colpa di Muddy, e anche un po’ del meraviglioso pezzo di Bob Dylan: quelle due parole erano diventate un mood, un modo di sentirsi, un’invocazione. Essere rollin’stone era diventato essere rock.
L’attacco di Highway 61 Revisited
La Highway 61 è una strada che taglia l’America su dal Minnesota fino a Sud nel Mississipi: è bello notare come arrivi fin dentro la terra dove si cantava originariamente il Catfish Blues (dal Minnesota, Duluth, viene invece Bob Dylan). Dicono che sia la strada imboccata dagli abitanti del Mississipi per cercare fortuna e portare la loro musica altrove. Non per niente è detta anche la strada del blues, e puoi incrociare un cartello a un certo punto del cammino che racconta la rivalità con la Route 66, come la strada più famosa della tradizione musicale americana. Highway 61 Revisited viene pubblicato nel 1965, uno dei periodi più creativi di Bob Dylan: a quei tempi stava anche scrivendo un libro, che uscirà poi col titolo di Tarantula, non rinunciando alla poesia come ribadirà in un’intervista al New Yorker del ’64.
È difficile essere liberi in una canzone, e metterci dentro tutto quanto. Le canzoni sono così limitanti. […] Una canzone deve avere una forma che si adatti alla struttura musicale. Puoi storcere parole e metrica quanto vuoi, ma in qualche modo devono essere adattate. Sono riuscito a ottenere una maggiore libertà nelle canzoni che scrivo, ma sento di essere ancora limitato. È per questo chescrivo un sacco di poesie, se vogliamo definirle così. La poesia si crea da sé la propria forma.
Parte di quelle pagine diventeranno il testo del pezzo che fa partire il disco, Like a Rolling Stone: ”mi ritrovai a scrivere questo lungo getto di vomito di venti pagine, da cui presi Like A Rolling Stone”, Bob Dylan racconta quel certo periodo e la nascita di un pezzo di storia, il risentimento che provava diventa una canzone chiaroveggente, ”un pezzo ritmico su carta tutto incentrato sul mio odio e diretto a un fine onesto. Perciò non era odio, ma dire a qualcuno una cosa che non sapeva, dirgli che era fortunato. Rivincita, forse, è un termine più corretto”. Si mette al pianoforte con le venti pagine che aveva scritto, e di getto qualcosa si illumina nella testa ed espolde in un How does it feel. Piove a New York il giorno delle registrazioni: Mike Bloomfield viene invitato a suonare la chitarra, e gli si prega di non fare blues, Al Kooper suona l’organo (e si sente quel certo riff). Nascono quei 6 minuti che immediatamente scalano le classifiche, restando al primo posto per ben tre mesi. Lo sfogo di Bob Dylan diventa la sua invettiva, a cavallo tra folk e rock, coi fiumi di inchiostro e scatti di immagini che si consumeranno sul passaggio dall’acustico all’elettrico. Al Newport Folk Festival del 1965 il pubblico resta letteralmente sconvolto: il profeta acustico si portava appresso gli amplificatori per suonare con strumenti elettrici. Dopo due anni di partecipazione, di cui uno accompagnato da Joan Baez, deve essere stato divertente ritrovarsi uno Zimmerman rinnovato al terzo anno, accompagnato da Bloomfield. Like a Rolling Stone segna quel passaggio al sound rock. Criticato, con Pete Segeer in testa, da quelli che più lo avevano adorato. Ma probabile che per Bob quel momento abbia segnato una sorta di liberazione, da un ruolo, un’idea, una trappola. Mi avete intrappolato ad essere il cantore del folk, il profeta dei diritti umani? e ora vi faccio vedere io!, sembra urlare. Del resto, lo stesso disco contiene quella Ballad of a thin man che è un’altra canzone di protesta a suo modo, un’altra vomitata arrabbiata di Dylan.
Senza più tanti giri di parole, anche se esistono intere dimostrazioni sul fatto che Miss Lonely sia Edie Sedwick, ma la cosa non è per niente interessante, e soprattutto chi avrebbe la pazienza di leggerle, sentiamola quella che per molti è la canzone più bella di sempre (per chi non la conoscesse, attenzione agli spoiler di cui sopra: non valgono niente).