[divider]Non c’è niente di peggio che svegliarsi rimanendo in hangover tutta la mattina, reduci da una manciata di ore di sonno e con i ricordi della sera prima offuscati dai fumi dell’alcool. Era il 20 aprile, un numero sul calendario che appariva non meno diverso da tutti gli altri, l’unica differenza risiedeva nell’accorgersi solo a posteriori che in realtà era una data molto importante per una serie di coincidenze particolari. Era l’una post meridiem, gli occhi semichiusi davanti ad una tazza di caffè, la televisione in sottofondo mostrava la kermesse che metteva in ridicolo l’Italia: una passerella infinita di parlamentari che con gesto quasi spavaldo consegnavano il loro voto per la nuova nomina della Presidenza della Repubblica, come se fosse scontato che quella fosse la volta buona, l’ultima e decisiva. Ormai era come assistere da giorni ad un cane che si mordeva la coda, così decisi di spegnere quello spettacolo indecente.
Se all’inizio poteva far quasi ridere questo baillamme politico, quella distanza tra serietà e vigliaccheria si andò così assottigliando che preferii annebbiare il mio cervello con qualcos’altro. Non ne volevo sapere neppure di consultare internet, era rivoltante assistere allo smantellamento delle istituzioni e mi veniva il voltastomaco. Mi lanciai sul letto, provocando un tonfo sordo e me ne stetti un po’ lì a rimirar il soffitto, in attesa di non so bene cosa, o forse sperando che qualcuno rinsavisse. Presi un libro qualsiasi dal comodino, tanto per ingannare quel momento di noia: Opinioni di un clown, non mi è andata neanche male come lettura – pensai. Ma per quanto fosse interessante il romanzo di Böll la stanchezza era troppa e finii in un dormiveglia a più strati, per cui era difficile comprendere cosa fosse reale e cosa no. Chiusi gli occhi fino ad addormentarmi in un sonno profondo, senza sapere dove sarei potuta finire, così come capita in tutti i sogni. Piuttosto che guardare Amici su Canale 5 e trovarvi un politico vestito da Fonzie, alla fine mi era andata bene così.
Ascoltavo De Andrè e mi veniva spontaneo canticchiarlo per i carruggi di Genova, sentivo ancora sulla mia pelle l’odore di una giornata di fine maggio sulla riva di Bocca d’Asse, nei campi tra il sudore di quell’amore così sentito, così voluto e scongiurato in tutte le lingue. E poi dopo un anno a Genova non c’era più quel vecchio amore, il quale forse non aveva la forza di resistere al mio pensiero, al fastidio della mia infelicità e a quel miraggio che era scomparso rapidamente.
Ma dopo poco – come si sa nell’oblio del riposo è solito – lo scenario cambiò drasticamente: era tutto buio, ogni movimento portava alla nausea. Non sentivo che il mio respiro amplificato mille volte, nel silenzio di un parco colmo di gente. Non vedevo che la mia ombra traballare lungo le rive del Po. Un fiume non è mai troppo lontano dal mare, ma le luci sono diverse, gli odori meno intensi e l’erba cresce più verde.
Dall’oscurità intravidi una figura conosciuta e amica e sul suo volto comparve un sorriso. Mi guardava lentamente, come se la mia vista gli causasse accecamento, mi scrutava e nei suoi occhi era facile perdersi. Nel vedere quella timidezza mi sentivo più sicura e potente per fattori ancora ignoti. Mi sembrava quasi che il tempo stesse aspettando che quell’incontro arrivasse al suo esito per continuare a fluire normalmente, un senso di sollievo riempiva la mia gola, soddisfava i miei umori e le mie paure venivano spezzate in un abbraccio caldo, in due baci profondi lungo il collo, in un brivido senza precedenti. Piacere denso come lava, come uno sguardo malinconico. Poteva essere intesa come una richiesta d’aiuto la sua. Sibilare frasi già dette, ma dette in maniera diversa lungo quella strada per tornare a casa.
Mi svegliai di soprassalto, erano frammenti di sogno, non c’era certezza in quelle immagini in bianco e nero, desaturate, ma c’era qualcosa che mi faceva credere di aver voltato pagina, che non mi importava veramente che il paese stesse cadendo a pezzi, e non mi interessava veramente ciò che consideravo valido prima, avevo delle nuove risposte ora. Casa è la parola chiave. E’ sempre stata questa la nostra cornice. Siamo vissuti anni qui incontrandoci, scontrandoci senza vederci, raccogliendo solo abbagli e poi un giorno una visione inaspettata. Apparteniamo a questi luoghi, veniamo dallo stesso posto, forse ce ne andremo, ma ora siamo qui, tutti e due aspettando che accada qualcosa a rivoluzionare vite, schemi, esercizi mentali.
Il cielo riserva un cuore d’argilla e questa pioggia che dal vento viene sospinta, non ferisce, ma bagna gli occhi di chi non sa il proprio futuro. Aspettare che piova è l’unico metodo per ingannare i passanti e per non farsi sopraffare dalla stasi che inghiotte, dilania e spesso uccide. Mentre aspettiamo che qualcuno decida per noi quali saranno le nostre sorti non ci è impedito innamorarci, come ai tempi in cui non esistevano ancora i social network e gli instant poll. Mia nonna direbbe: «Si stava meglio quando si stava peggio», come non darle torto.[divider]