“La disperazione è una forma superiore di critica. Per ora, noi la chiameremo “felicità”, perché le parole che voi adoperate non sono più “parole”, ma una specie di condotto attraverso il quale gli analfabeti hanno la coscienza a posto” così recita Leo Ferré nella sua poesia “La solitudine” che ha ispirato il titolo del nuovo album di Vasco Brondi.
Lo si aspettava al varco, col suo secondo lavoro, dopo l’esordio apprezzatissimo da pubblico e critica, anche grazie alla collaborazione con il maestro Giorgio Canali. Ci si chiedeva come sarebbe stato il capitolo secondo. Se “Le Luci della Centrale Elettrica” avrebbe trovato una via di fuga per sfuggire a se stesso, a quella retorica che si è costruito addosso e che, nel bene e nel male, rischia di seppellirlo.
Bene, la poetica di Vasco non è cambiata, anzi a qualcuno potrà risultare ancora più fastidiosa, disperata. Non c’è la batteria, c’è la voce in primissimo piano, ci sono dieci logorroiche tracce che suonano simili tra loro, piene di parole sghembe vomitate, urlate, sussurrate. La prima critica che gli si può muovere è quella di scrivere sempre la stessa canzone, di usare sempre le stesse immagini, sempre le stesse frasi che, se finiscono per impressionare o emozionare una prima volta, alla lunga tendono a stancare.
Eppure distacchiamoci per un attimo dalla musica, guardiamo al nostro tempo, a quello che i media ci propinano, proviamo a guardare dieci minuti di un fottuto TG qualunque, ebbene le parole saranno sempre le stesse: scioperi di metalmeccanici, disoccupazione, discariche, economia a rotoli, disagio, immigrazione… non sono forse sempre le stesse tematiche, sempre lo stesso linguaggio, sempre le stesse immagini quelle che ci vengono mostrate e che affollano la quotidianità dei nostri giorni?
“Per ora la chiameremo felicità” è come una lunga canzone d’amore, è un disco monocorde, romantico, in un tempo in cui il romanticismo deve fare i conti con la durezza delle nostre giornate, scandite tra la precarietà del lavoro e le crisi che ci circondano. E capita che, tra una citazione di Battisti, una di De Andrè e dei C.S.I. ti parli di come in questi anni zero gli occhi diventano lucidi come le Mercedes, perché le metafore sono cambiate in un mondo che ci vuole consumatori prima che esseri pensanti.
È come una lunga lettera d’amore piena d’immagini surreali, eppure non troppo, di quelle frasi che ogni giorno ti piombano addosso accendendo la televisione o sfogliando un giornale: contratti a termine, licenziamenti, call centers, disastri economici, la Cina, le mine, le repubbliche democratiche fondate sui telespettatori. C’è una maggiore ricerca della melodia, un tentativo di riappropriarsi della forma canzone.
Vasco Brondi è così, prendere o lasciare, ti parla in questo modo sgangherato, violenta la lingua italiana, la riempie di ossessioni più o meno credibili, ma in questo modo, piaccia o non piaccia, descrive e rappresenta la vuotezza del nostro tempo. Non ha certamente il talento poetico di De André, non penso abbia queste ambizioni, ma mi sembra sincero, diretto e la sua musica, per quanto possa essere monotona o monocorde, ha l’aria di essere qualcosa di necessario, di sentito. Continuiamo ad aspettare il superamento delle retoriche, intanto godiamoci il suo ritorno.
Brani significativi: Quando tornerai dall’estero, Anidride Carbonica, Le petroliere.
Se ti piace prova anche: Giorgio Canali, C.S.I., Rino Gaetano.
mi piace, bravo Salvatore