Una settimana e più di scontri quotidiani nelle piazze, hanno riacceso il dibattito su cosa sia la violenza e come usarla. Sto notando in particolare un atteggiamento estremamente “snob” nei confronti della stessa, il quale consiste nel condannare sia gli atti di forza della polizia che quelli dei manifestanti, ponendosi al di sopra delle parti e, sostanzialmente, evitando di prendere posizione.
Esistono in verità due forme di violenza, una indiretta e l’altra diretta.
La seconda è quella ovvia, quella dalla quale la maggior parte degli intellettuali sta prendendo le distanze, condannando a più riprese prima i lacrimogeni sparati dalla polizia e poi i sanpietrini lanciati dal corpo contestante. Quella violenza per la quale si è inventata la categoria del Black Block, dello “spacca-vetrine”, del vandalo più che del contestatore.
La prima – quella indiretta e poco denunciata – è la violenza invisibile: sostanzialmente è una violenza togliere il lavoro ai minatori dell’Alcoa che si sono visti strappare via il reddito con le famiglie da mantenere; è una violenza porre i datori di lavoro nelle condizioni di licenziare più facilmente i propri dipendenti – la famosa “flessibilità in uscita”; è una violenza dire agli studenti di non essere schizzinosi sul lavoro e di non pensare ai sacrifici che hanno fatto i genitori (magari alcuni dell’Alcoa) di tanti di loro per poterli iscrivere all’università; è violenta la dichiarazione di Monti che stucchevolmente blaterava di “generazioni perdute”; è violenza dare 223 milioni di euro alle scuole private mentre si aumentano le ore di lavoro ai professori liceali (perlopiù precari); è violenza il silenzio dei partiti di fronte alle problematiche delle cooperative; è violenza chiedere sacrifici ai lavoratori in nome di un fantomatico spread e della mano invisibile (che sta diventato visibile e pesante). Si potrebbe andare avanti per ore.
Come se non bastasse i sindacati confederati si sbeffeggiano tra loro, in particolare negli ultimi giorni si è assistito all’attacco di Angeletti alla Fiom, che ha dichiarato: “la Fim e la Uilm stanno trattando con la Federmeccanica per il rinnovo del contratto del 2009 che la Fiom non solo non ha firmato, ma sta osteggiando con le cause nei tribunali. Tutto può accadere, dunque, fuorché la Fiom si segga, ora, al tavolo della trattativa senza aver prima riconosciuto la legittimità di quel contratto”. Questa due frasi di Angeletti le prendo ad esempio sulle contraddizioni che vivono i sindacati, sul fatto che la radicalità non è nel loro vocabolario e che addirittura qualcuno in passato si è sbilanciato nell’offrire solidarietà al governo (ricorderete che Angeletti invitò Tremonti all’assemblea Cisl). Questo neutralizzarsi a vicenda delle varie firme sindacali ha portato ad una paralisi totale della lotta per il lavoro, quella vera in cui non è consentito alla retorica demagoga sulla produttività di trovare spazio.
Con i governi che distruggono il mercato del lavoro con la scusa dello spread e con i sindacati che si guerreggiano per poter tenere i remi in barca delle loro fatiscenti piattaforme, i vari soggetti sociali si sono ritrovati in una situazione chiusa: si cerca di non far uscire l’acqua dalla pentola mettendoci un coperchio ma contemporaneamente si alza la fiamma al massimo. Era naturale pensare che prima o poi la pentola sarebbe scoppiata.
Ed è scoppiata proprio grazie ai movimenti dal basso, all’auto-organizzazione, alla volontà di creare antagonismo con scudi di plexiglas e caschi contro una polizia che difende lo status-quo (senza manco rendersene conto, ma anche se fosse non sarebbe importante). Il messaggio che si vuole mandare non è quello rivolto ai lettori di quotidiani nazionali pronti a storcere il naso, ma al governo stesso: si tenta di dire “non ce la facciamo più” con tutta la rabbia e la veemenza possibili. La differenza tra una parata ed un corteo è tutta qui: nella contestazione e nella sua caratterizzazione. Anzi c’è proprio una volontà forte di creare disordini perché il violento ordine imposto dal patto di stabilità, dal fiscal impact e da altre porcate dai nomi altisonanti strozza i soggetti deboli.
Rivolgo a questo punto una domanda a tutte quelle persone che si stanno indignando delle violenze perché si sentono al di sopra di tanta “bestialità”: voi cosa fareste se vi togliessero il lavoro all’improvviso, se la banca vi prendesse la casa e se vostro figlio non avesse una prospettiva futura nonostante gli svariati anni di studio? Stareste a casa a indignarvi, immersi nella polvere che vi rimane in mano o scendereste in piazza ad urlare, a mandare segnali di contestazione sociale, di disprezzo verso le politiche di tagli?
P.S.: Weber diceva che una delle prerogative dello Stato è la detenzione monopolistica della “violenza legittima”. Se anche questa frase possa essere in qualche modo condivisibile, non vi sembra che lo Stato abbia passato la misura con tutta questa violenza?
P.P.S.: Breve reportage di Insu-TV sulle mobilitazioni del 12 novembre scorso a Napoli:
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